Mezzogiornificazione dell’Europa?

Abbiamo già affrontato in passato le modalità con cui la crisi economica ha attaccato l’Europa; come già dimostrato, questa si è espansa a macchia di leopardo, malgrado il surplus commerciale complessivo dell’Eurozona sia superiore a quello cinese, è innegabile come i problemi si siano verificati nel sud della UE. Di fronte a questi avvenimenti le ricette declamate sono state costruite più su luoghi comuni e forme di qualunquismo basate più su improbabili post su Facebook che su mirate analisi macro-economiche.

Il punto su cui gli ultimi governi si sono concentrati, ed anche buona parte del mondo imprenditoriale e parti sociali annesse, è stato il costo del lavoro, come se questo fosse l’unica variabile capace di rimettere in moto l’economia. L’onnipresente ospite dei salotti televisivi, l’on.le Salvini, ha fatto della guerra alla “invasione” dei cinesi un comodo cavallo di battaglia populista da sbandierare nei comizi. Ovviamente il fatto che la locomotiva tedesca abbia costi del lavoro e salari fra i più elevati a livello mondiale viene riportato solo come termine di paragone per i risicati stipendi italiani. Altri motti che si trovano spesso nel lessico comune, sono “rottamazione” e “innovazione”, parole che è facile mettere sui media, meno da riempire di contenuti. Il premio Pulitzer Jill Lepore di Harvard University, nei suoi studi ha impietosamente evidenziato come in realtà “gli innovatori che sbucano dal nulla” siano aziende (o persone) consolidate, con una storia creata nel tempo e che hanno basato tutto su di una crescita progressiva basata su efficienza e qualità.

L’economista statunitense premio Nobel per l’Economia nel 2008, Paul Krugman noto anche per i suoi impietosi giudizi sul ministro Padoan, per definire la situazione economia nella UE coniò già ne 1991 il termine di “mezzogiornificazione”. Con questa parola si intende un processo di emigrazione del capitale lavoro umano, desertificazione produttiva ed assorbimento estero dei capitali nazionali. Nelle sue recenti analisi pone l’accento su come la Germania, paese al top per incremento della produttività e per esportazioni, sia proprio quello dove il costo del lavoro è più alto, superiore anche a quello degli Stati Uniti, che invece soffrono di gravi carenze da questo punto di vista.

Il paese della cancelliera Merkel non brilla nemmeno per la già richiamata innovazione, non è nato in Germania l’ultimo modello di telefonino, ma i punti forti su cui fanno forza oltralpe sono la reputazione di nazione in grado di produrre beni ad altissima qualità ed affidabilità. La tanto decantata qualità tedesca è oramai diventato un brand che si vende da solo.

I maggiori prezzi derivanti dalla costosa manodopera impiegata in Germania sono ampiamente compensati dal fatto che il mercato è disposto a pagare di più in presenza di un’alta qualità produttiva. L’incremento delle quote di mercato si verifica quindi in un paese che presenta anche una dinamica salariale maggiore rispetto ai paesi concorrenti. Questo evidenzia come l’aumento delle esportazioni e l’incremento delle quote di mercato non sono determinate dalla riduzione dei costi relativi e dai prezzi delle esportazioni. Comprensibili quindi i dubbi su quanto la svalutazione dell’euro potrà effettivamente aiutare la ripresa economica. Questo fenomeno è conosciuto come “paradosso di Kaldor”, secondo cui sono i fattori competitivi e non i prezzi a determinare la crescita economica. In base a questo modello economico si definisce il settore manifatturiero come motore della crescita dell’economia; la produttività aumenta al crescere della quantità prodotta; maggiore è la crescita del settore manifatturiero maggiore è la migrazione della forza lavoro da altri settori. Viene evidenziato da questo ragionamento che i tassi di crescita economica inferiore si hanno in presenza di vincoli nel settore manifatturiero, intesi come limitata offerta di lavoro e insufficiente domanda di beni. Il vincolo dal lato della domanda è tale se il mercato è trainato dalla domanda interna, se si basa sulle esportazioni una diminuzione del costo del lavoro ed un aumento della competitività hanno effetti benefici sulla crescita.

Altro aspetto che influisce sulla mezzogiornificazione, sempre intesa ricordiamo come divario nei tassi di crescita economica, avviene tra economie che si specializzano in produzioni ad alto tasso di know-how, attraenti per la domanda estera e paesi che invece si specializzano in settori tecnologicamente più arretrati e meno interessati dalla domanda internazionale. Le esportazioni sono di fatto il fattore di crescita della capacità industriale di una economia, queste dipendono dalla domanda mondiale e dai salari di efficienza di keynesiana memori, che sono un rapporto tra salario e produttività. Da questo si discerne che le aree dove la crescita aumenta più velocemente accumulano un vantaggio cumulativo rispetto alle altre, anche qui si vede la differenza che porta alla mezzogiornificazione tra il nord ed il sud dell’Europa.

In conclusione, affermare che per favorire la crescita è sufficiente abbattere il costo del lavoro è inesatto e fuorviante, è necessario puntare sull’aumento della produttività. Si è visto come il continuo abbattimento del costo del lavoro da parte di alcuni paesi dell’Eurozona abbia portato a deflazione, decrescita, aumento del debito e nessun incremento del Pil. Più che sulle riforme del mercato del lavoro, soprattutto se malfatte come il Jobs Act, farebbero bene a concentrarsi su interventi di politica industriale, per intervenire sulla specializzazione produttiva nelle aree in cui questa risulta essere più o meno arretrata sotto il profilo tecnologico.

©Futuro Europa®

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