Politica

Cronache dai Palazzi

“Il nostro stile di vita e i nostri valori non saranno assicurati da quanto siano giuste le nostre cause, ma da quanto è forte la nostra difesa”, lo ha affermato la premier Giorgia Meloni citando la Thatcher durante il vertice Nato che ha confermato il 5 per cento del Pil per le spese per la difesa, di cui il 3,5 per cento da destinare alle spese militari “tradizionali” e il restante 1,5 per cento da investire in spese per la sicurezza e cybersicurezza. Solo la Spagna continuerà a versare il 2 per cento del Pil, dato che si è sottratta al nuovo investimento da adempiere entro il 2035. Secondo il segretario Mark Rutte gli Alleati “hanno gettato le basi per una Nato più forte, più equa e più letale”. In definitiva nessuno può affrontare le sfide da solo e “non può esserci una competizione fra alleati se dobbiamo raggiungere tutti questi obiettivi, il target del 5% delle spese di difesa insieme alla creazione di un’area di free trade tra le due sponde dell’Atlantico sono due facce della stessa medaglia”. L’Europa in tutto questo dovrà necessariamente fare la sua parte “per costruire un reale e forte pilastro alternativo della Nato, con ambiziosi e innovativi strumenti finanziari”, puntualizza la premier Meloni.

Di certo, in virtù di un accordo non semplice da raggiungere, è stato un vertice Nato storico. In definitiva gli Alleati destineranno almeno il 3,5% del Pil all’anno “al fabbisogno di risorse fondamentali per la difesa e al raggiungimento degli obiettivi di capacità della Nato”. Dopo aver definito la Russia “una minaccia a lungo termine”, nella dichiarazione gli Alleati hanno inoltre messo nero su bianco il loro “impegno sovrano duraturo a fornire supporto all’Ucraina, la cui sicurezza contribuisce alla nostra”.

Giorgia Meloni inoltre puntualizza: “Non esistono più quadranti separati in geopolitica, non possiamo discutere di Russia senza parlare di Cina, e non possiamo parlare di Indo-Pacifico senza riconoscere che mentre eravamo distratti la Cina è penetrata in profondità in Africa e in Sud America”. Inoltre “nessuno di noi a questo punto della storia può affrontare alcune sfide da solo e per tutti noi la sfida primaria è quella di una difesa condivisa”, ribadisce la premier non trascurando un aspetto fondamentale delle guerre del mondo contemporaneo: “I dati e la loro sicurezza, potrebbero essere più letali dei proiettili, e i satelliti più efficaci dei carri armati”. L’analisi, lo studio e la riflessione su tali aspetti fondamentali sono azioni necessarie e in corso sia in ambito Nato sia all’interno dei singoli governi. La stessa divisione della spesa, dedicando nello specifico una quota del 5 per cento alla dimensione cyber testimonia l’essenzialità di tale dimensione, alla quale non è possibile sottrarsi anche se, alla fin fine, le guerre si continuano a combattere sul campo e quindi le attività di studio e di analisi a distanza, anche attraverso i potenti mezzi della tecnologia, devono essere supportate in ogni modo da un’attenta vigilanza sui luoghi chiave, monitorando i posti sensibili e tenendoli d’occhio con una presenza non prettamente virtuale. In definitiva il campo non può essere abbandonato né, tantomeno, delegato alla tecnologia, seppur eccelsa ed avanzata.

Nonostante a L’Aia la premier Meloni, di fronte all’accordo raggiunto con gli Alleati, abbia affermato che l’obiettivo del 5 per cento da raggiungere in dieci anni sia un obiettivo “sostenibile” nonché “necessario”, i conti interni ne potrebbero risentire. Si tratta di “impegni significativi e sostenibili per l’Italia – ha sottolineato Meloni -, spese necessarie per rafforzare la nostra difesa e la nostra sicurezza, in un contesto che lo necessita, ma in una dimensione che ci consente di assumere gli impegni sapendo che non distoglieranno neanche un euro dalle altre priorità a difesa e tutela degli italiani”. Secondo la premier Meloni tali nuove quote di spesa per la difesa creerebbero addirittura le condizioni per innescare un circolo virtuoso sul piano della produzione, a vantaggio del sistema economico italiano: “Una parte importante di queste risorse, se siamo bravi, vengono usate per rafforzare le imprese italiane, e questo crea una politica economica espansiva che crea risorse”. In definitiva “il grande tema da affrontare ora è la capacità delle nostre aziende di rispondere a un impegno importante”.

Non sono sulla medesima lunghezza d’onda via XX Settembre, la Banca centrale d’Italia, l’Ufficio Parlamentare di Bilancio, la Corte dei Conti e anche la Banca centrale europea. In particolare, secondo il ministero dell’Economia le regole europee non aiutano. In sostanza per raggiungere l’obiettivo del 5 per cento del Prodotto interno lordo, il nostro Paese dovrebbe aumentare il budget annuale per la difesa e la sicurezza dai 46 miliardi attuali a 110 miliardi. Gli attuali 46 miliardi corrisponderebbero al 2% del Pil che secondo il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, l’Italia raggiungerebbe già nel 2025 con la riclassificazione di alcune spese, anche se i dati Nato indicano l’1.5%

Nell’arco del decennio 2025-2035 la spesa per gli armamenti raddoppierebbe fino ad arrivare a quasi 900 miliardi. La premier ha assicurato che non sarà distolto “neanche un euro dalle altre priorità a difesa e tutela degli italiani” ma non sarà un obiettivo semplicissimo. Nella pratica c’è il rischio reale che per finanziare la difesa occorra tagliare altre spese o addirittura mettere in scena nuove tasse. La Commissione europea afferma, in maniera quasi eufemica, che si dovranno “riorientare le priorità di bilancio”. Facendo dei raffronti 110 miliardi l’anno investiti per la spesa militare rappresenterebbe dopo le pensioni (attualmente122 miliardi) la spesa più sostanziosa del bilancio dello Stato, superiore alla spesa per la sanità (88 miliardi), quasi il doppio della spesa per la scuola (56) o le politiche sociali (66).

Per la presidente del Consiglio andrebbero messe insieme le risorse del bilancio, i fondi di coesione e quelli del Pnrr, rimodulando il Piano di resilienza e aggiornandolo con la Coesione. Le opposizioni a loro volta sembrano essere già pronte a riversarsi nelle piazze in autunno e gli slogan sono facilmente prevedibili, del tipo: “il governo taglia le risorse alla sanità e alla scuola per spendere più soldi nell’acquisto delle armi”.

“Non si potrà fare tutto, siete avvisati”, ammonisce il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, ribadendo a gran voce a compagni di partiti e non: “Bisogna stare attenti”. Riguardo alla questione dei dazi americani è invece quasi convinto che alla fine “Trump non li applicherà”, mentre a proposito di extra-profitti ed eventuali tasse da imporre alle grandi multinazionali (anche e soprattutto americane) “il compromesso va raggiunto a Bruxelles”. Rispetto alle spese per la difesa ciò che non convince è infine la cosiddetta “clausola di salvaguardia” proposta da Bruxelles nel piano per agevolare il riarmo. Fino al 2029 la Ue è disposta a concedere un “bonus” a ogni Paese per spendere fino all’1,5% del Pil in più per la difesa. Un Paese come il nostro, però, che presenta un deficit superiore al 3% del Pil ed è soggetto alla procedura per il disavanzo eccessivo, non può incrementare più di tanto i propri volumi di spesa altrimenti il rischio potrebbe essere quello “di non uscire mai più” da una situazione di deficit eccessivo che via XX Settembre punta a far rientrare sotto il tetto entro il 2026.

La prudenza è comunque obbligatoria. Secondo l’Ufficio Parlamentare di Bilancio se l’Italia si limitasse ad una spesa per la difesa pari a 0,25 punti del Pil nel 2025 e altrettanti nel 2026, per un totale di 12,3 miliardi, il deficit tornerebbe sotto al 3% già nel 2027. Usando invece tutto il margine, l’1,5% del Pil (la Nato richiede addirittura il 3%) potremmo rientrare sotto il 3% entro il 2030 ma il debito potrebbe poi tornare a crescere nel 2032 per raggiungere il 139% nel 2041. Da qui la prudenza italiana nell’affrontare l’incremento della spesa militare in ambito Nato, nonostante venga richiesto di raggiungere gli obiettivi prefissati nell’arco di dieci anni con una verifica nel 2029 e un eventuale ampliamento delle spese ammissibili. Per quanto riguarda l’anno in corso, e anche per il 2026, l’Italia non chiederà comunque l’attivazione della clausola Ue. Sempre secondo l’Ufficio di Bilancio gli investimenti nel settore militare sarebbero inoltre quelli che “pagano” di meno per quanto riguarda eventuali ritorni sull’economia, con un moltiplicatore pari allo 0,5%, in pratica ogni euro speso nella difesa genera un aumento del reddito di soli 50 centesimi, e non vi sono effetti strutturali positivi a lungo termine come di solito avviene investendo nelle infrastrutture, nell’istruzione e nella sanità ossia i settori ai quali corrisponde il moltiplicatore più alto, anche superiore a 1. Circa il 60% delle spese militari è infine assorbito dalle importazioni generando quindi vantaggi per dei Paesi stranieri, più che per l’economia nazionale, e arrivare a spendere l’1,5% in più all’anno (37 miliardi) entro il 2029 comporterebbe un incremento del Pil di appena un punto percentuale in quattro anni.

©Futuro Europa® Riproduzione autorizzata citando la fonte. Eventuali immagini utilizzate sono tratte da Internet e valutate di pubblico dominio: per segnalarne l’eventuale uso improprio scrivere alla Redazione

Condividi
precedente

Io sono ancora qui (Film, 2024)

successivo

Centoventicinque anni di Piccolo Principe

Rispondi

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *