
Centoventicinque anni di Piccolo Principe
“Disegnami una pecora”. Così inizia Il piccolo principe, ed è difficile trovare un altro incipit tanto semplice e tanto disarmante. Forse in Cent’anni di solitudine di Marquez o nel Moby Dick di Melville troviamo incipit così potenti, ma se pensiamo che sono le parole di un (all’apparenza) bambino, riusciamo a capire la grandezza di un grande scrittore. In quelle parole c’è già tutto Antoine de Saint-Exupéry: il desiderio di andare oltre l’apparenza, di vedere l’invisibile, di restare bambini pur volando tra le nuvole e dentro le guerre.
A centoventicinque anni dalla nascita (29 giugno 1900) e a ottantuno dalla scomparsa (31 luglio 1944), ricordare Saint-Exupéry significa fare i conti con una figura che sfugge a ogni definizione: pilota, scrittore, filosofo dell’aria, testimone della dignità umana. Un uomo che ha conosciuto il deserto e la guerra, il cielo e la solitudine, l’esilio e la gloria. E che ha trasformato tutto questo in parole che ancora oggi ci attraversano come il vento: leggere, ma mai leggere.
Questo non è solo un ricordo. È un tentativo di disegnare, una volta ancora, quella pecora. E di capire perché, in fondo, non abbiamo mai smesso di cercarla. Lo ricordiamo per Il piccolo principe, un libro che troppo spesso viene etichettato come favola per bambini, ma che in realtà è una riflessione profonda sull’animo umano, sulla solitudine, sull’essenziale che sfugge agli occhi.
Ma Antoine de Saint-Exupéry non fu soltanto uno scrittore: fu un pioniere del volo civile, uno degli ultimi cavalieri dell’aria. Lavorò per la Aéropostale, trasportando posta tra Francia, Spagna, Marocco, e poi tra Sud America e Africa, accanto a leggende come Jean Mermoz. Volare, in quegli anni, significava sfidare la morte ogni giorno: incidenti, guasti, tempeste, deserti. Lui stesso sopravvisse miracolosamente a un atterraggio nel Sahara (dove incontrò il Piccolo Principe) e a un altro incidente in Guatemala.
Era un pilota, ma anche un filosofo dell’altitudine: nel silenzio del cielo trovava spazio per interrogarsi sull’uomo, sulla responsabilità, sulla bellezza fragile della vita. Fu anti-nazista, ma anche critico verso il fanatismo: non aderì mai completamente a De Gaulle, e per questo fu guardato con sospetto. Si sentiva esule in patria, ma sempre fedele a un’etica alta e disarmata. Il suo pensiero anticipa valori che oggi sentiamo urgenti: empatia, responsabilità, rispetto. E forse proprio per questo, ancora oggi ci parla con parole che non invecchiano: “Non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi.”
E proprio Il piccolo principe, quel libro minuscolo e immenso, continua a essere letto, sottolineato, regalato come se contenesse una verità sempre nuova. È un viaggio di formazione, una parabola sull’amicizia, sul senso della perdita, sulla cura e sull’iniziazione alla profondità. Ogni personaggio incontrato – la rosa, il re, l’uomo d’affari, il lampionaio – è una prova da attraversare, un passaggio simbolico. Non serve essere bambini per capirlo. Serve avere il coraggio di tornare a essere cercatori. Chi legge con attenzione intuisce che dietro quelle parole si muove qualcosa di più antico e misterioso: un percorso, quasi un cammino interiore, fatto di simboli, domande, silenzi e stelle. E il principe, come l’autore, alla fine sparisce, ma lascia in chi legge il sospetto che non se ne sia mai andato davvero.
E non dimentichiamo che Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry è il libro non religioso più tradotto al mondo, con oltre 540 versioni in lingue e dialetti. La sua struttura semplice e poetica, unita alla profondità simbolica, lo ha reso uno strumento prezioso anche per la salvaguardia di lingue in via di estinzione e per l’insegnamento dell’alfabeto ai bambini. Esiste in braille, in lingua dei segni, ed è stato tradotto anche in forme sorprendenti e affettuose: in latino (Regulus), in esperanto (La Eta Princo), in sardo (Su Printzipeddu), in napoletano (‘O Principe Piccerillo), in siciliano (U Principuzzu Nicu), in romanesco (Er Principino), in veneziano (El Principe Picio), in friulano (Il Principut Picul), in livornese (Il Principe Piccino), e persino in lingue artiche, come l’inuit.
È stato pubblicato in versioni tattili per non vedenti, illustrato da bambini, inciso su tavolette di legno e stampato su microfilm per missioni spaziali. Un’opera minuscola per dimensioni, ma universale per portata umana, che continua a parlare a tutti perché parla all’infanzia che resta, silenziosa, dentro ciascuno di noi.
Come concludere? Grazie Saint-Exupery.
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