Togo, Honduras, Guatemala con Trump su Gerusalemme

Nove Paesi hanno votato, lo scorso 21 Dicembre, contro la risoluzione delle Nazioni Unite che condannava la decisione americana di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele. Molti di questi Stati percepiscono aiuti finanziari e non hanno voluto mettersi contro Washington.

Il Guatemala, Honduras, le Isole Marshall, la Micronesia, la Repubblica di Palau, il Togo e la Repubblica di Nauru si sono associati agli Stati Uniti e Israele per votare contro la risoluzione che condannava la decisione di Donald Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale dello Stato Ebraico. Tra i 139 Paesi membri delle Nazioni Unite, 128 hanno votato a favore del testo. Trentacinque Stati, tra i quali il Canada, il Messico, la Polonia e l’Ungheria, si sono astenuti e 21 non hanno partecipato al voto. Secondo gli esperti, il sostegno delle isole del Pacifico a Washington non ha nulla di sorprendente. Si tratta in effetti di ex colonie americane che percepiscono ancora da Washington notevoli sovvenzioni. I loro voti a favore degli Stati Uniti sono praticamente un automatismo.

Il giorno prima del voto,  Donald Trump aveva puntualizzato che i Paesi che avessero votato a favore della risoluzione che condannava lo statuto accordato da Washington a Gerusalemme sarebbero stati privati degli aiuti finanziari statunitensi. “Percepiscono centinaia di milioni di dollari, se non miliardi di dollari, e poi votano contro di noi”, aveva tuonato il presidente americano. “Lasciate che votino contro di noi, economizzeremo molto, per noi è indifferente”. Se i voti del Guatemala e di Honduras, due Paesi dell’America Latina anch’essi sovvenzionati dagli Stati Uniti, si spiegano facilmente per la motivazione finanziaria, la decisione del Togo di appoggiare gli Stati Uniti appare più sorprendente. Secondo Yves Doutriaux, ex diplomatico oggi responsabile del dipartimento di relazioni internazionali presso l’Università Paris-Dauphine, “Washington ha senza alcun dubbio un Ambasciatore molto efficiente a Lomé. Probabilmente è allo studio un progetto economico (tra i due Paesi). In ogni caso, è evidentemente ancora una volta il quadro finanziario ad avere il sopravvento”. Peraltro, il Togo sta istaurando legami sempre più forti con lo Stato Ebraico. Secondo il giornale economico e finanziario francese La Tribune,  “sulla scia della tournée di Benjamin Nethanyahou dell’estate 2017”, era anche stata presa in considerazione l’organizzazione di un summit Africa-Israele, poi rimandata.

Giovedì 21 Dicembre stesso, l’Ambasciatrice americana presso le Nazioni Unite, Nikki Haley, che aveva promesso “di prendere nota dei nomi” dei Paesi che avessero votato la risoluzione, ha ringraziato su Twitter, lista in mano, i 65 Stati che, ai suoi occhi, “non hanno ceduto ai metodi irresponsabili delle Nazioni Unite” scegliendo il voto contrario o l’astensione. Tra di loro il Canada e il Messico. Ottawa e Città del Messico sono abbastanza in disaccordo con la decisione di Donald Trump su Gerusalemme, ma lo stato attuale dei negoziati sull’accordo di libero scambio americano (Nafta) non permette loro di innervosire Washington. Trump vuole modificare notevolmente questo accordo che trova troppo sfavorevole agli Stati Uniti per ciò che riguarda l’occupazione. Washington esercita una forte pressione  minacciando Canada e Messico di sanzioni commerciali. L’azienda canadese di ingegneria aeronautica e aerospaziale Bombardier lo è già stata per due volte, nell’autunno scorso, quando Washington aveva deciso di imporgli dei diritti “antidumping”, che arrivavano al 220%. Questi ultimi consistevano nell’imporre un’imposta doganale altissima su di un prodotto venduto a minor prezzo nel suo Paese di origine. Per esempio Delta avrebbe pagato gli aerei commissionati all’azienda canadese 4 volte di più del prezzo pattuito.

La minaccia che possa mettere fine agli aiuti allo sviluppo colpisce ancora l’immagine degli Stati Uniti nelle relazioni internazionali. Ma questa decisione non scalfisce in alcun modo la popolarità del Presidente americano tra i suoi elettori. Ci ricorda Doutriaux che, ben prima della formulazione di queste minacce, la quota di aiuti allo sviluppo internazionale era già stata seriamente ridotta nel bilancio americano per il 2017-2018. A queste condizioni non c’è partita.

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