Premierato, la proposta Meloni

Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha autorizzato la presentazione alle Camere della riforma costituzionale recante “Disposizioni per l’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei Ministri, il rafforzamento della stabilità del Governo e l’abolizione della nomina dei senatori a vita da parte del Presidente della Repubblica”. Nella giornata di martedì scorso il testo della riforma costituzionale, portato avanti da Giorgia Meloni e il centro-destra, era stato bollinato dalla ragioneria e consegnato al Quirinale.

La voglia di cambiare nasce dalla fragilità del sistema politico italiano, oltre che dalla voglia di creare un sistema di potere più personalizzato e ‘autorevole’ (se usare la parola autoritario può evocare scenari non ipotizzabili oggi, ma sgraditi in tempo di social e poca attenzione). Dal 1946 in poi alla guida del Paese si sono succeduti 68 governi, compreso quello attuale: in media i governi italiani sono durati 416 giorni, ossia circa 14 mesi. I presidenti del Consiglio, compresa Giorgia Meloni, sono stati fino a oggi 31: in media uno ogni 29 mesi.

Il testo, che prevede il suffragio diretto del Presidente del Consiglio per la durata di cinque anni, era stato presentato dal governo e approvato dal Consiglio dei ministri nelle scorse settimane. La presidente Meloni l’aveva definita in conferenza stampa “La madre di tutte le riforme” perché conferisce ai cittadini “il diritto a decidere da chi farsi governare, mettendo fine a ribaltoni, giochi di palazzo e governi tecnici”, tesi discutibile, perché malgrado i malpancisti populisti, il parlamento risulta pur sempre da elezioni popolari.

Non deve generare scandalo il fatto che si voglia cambiare la forma di governo per rafforzare l’esecutivo rispetto l’assemblearismo, in passato ci sono stati i casi della Legge fondamentale tedesca del 1949, la Costituzione francese del 1958, e successivamente la costituzione spagnola del 1978, hanno adottato una serie di misure, che vanno sotto il nome di «razionalizzazione del parlamentarismo». In Italia la reciproca diffidenza tra le parti politiche del dopoguerra, il timore che una si potesse avvantaggiare rispetto le altre, non ultimo lo status quo determinato dal lungo regno monolitico della DC, l’immobile “Balena Bianca”, ha determinato un sistema politico che il sociologo Luciano Cavalli nel 1992 definì “Repubblica acefala”.

Ma tornando al “premierato” proposto dalla coalizione guidata da Giorgia Meloni, è lecito chiedersi quale sia la definizione di un sistema che non risulta avere similitudini negli altri sistemi elettorali, se non, forse, con una vaga rassomiglianza al semi-presidenzialismo. Una definizione chiara non esiste, come ha spiegato nei mesi scorsi il costituzionalista Mauro Volpi, professore di Diritto costituzionale all’Università di Perugia. Il termine premierato può indicare ad esempio “un sistema in cui il presidente del Consiglio ha più poteri rispetto al nostro, per esempio quello di revocare i ministri”, rimanendo però legato a un rapporto di fiducia con il Parlamento. Oppure “un sistema in cui il presidente del Consiglio viene eletto direttamente dal popolo, annullando la necessità di un rapporto di fiducia parlamentare”. Si parla in questo caso della figura del premier come del “sindaco d’Italia”.

Curiosamente il secondo incarico di premierato sarebbe più forte del primo, il primo insuccesso porta al secondo incarico, ma solo l’insuccesso del secondo premier incaricato porterebbe ad elezioni anticipate. Rispetto il cancellierato tedesco ci sono varie differenze di una certa importanza, in Germania la fiducia va al solo cancelliere e da parte di una sola Camera, e questi ha il potere di chiedere al Capo dello Stato la revoca, oltre che la nomina, dei ministri. sarebbe utile potere votare la sfiducia al governo in carica con l’indicazione di un nuovo Premier a maggioranza assoluta da parte del Parlamento ad esempio. Non casualmente, a pensare male, manca il limite al numero dei mandati, altro punto dolente in una democrazia che vuole essere tale.

Per finire le valutazioni, riportiamo l’unico precedente che ricalcò l’odierna riforma italiana proposta, nel 1992 la Knesset, il parlamento israeliano, adottò una legge per modificare il proprio sistema elettorale e cercare di dare maggiore stabilità al Paese, trasformando Israele nella prima democrazia parlamentare in cui il Primo Ministro veniva eletto direttamente dagli elettori. Una sorta di “presidenzializzazione” della democrazia parlamentare, che avrebbe dovuto mettere un freno alla frammentazione del voto – e quindi della Knesset – in una moltitudine di partiti. Come ha scritto la ricercatrice israeliana Tamar Friedman Wilson, la nuova riforma elettorale fallì il suo obiettivo e fu mantenuta solo per tre elezioni (1996, 1999 e 2001) prima di essere abrogata. “Invece di limitare il potere dei partiti più piccoli che avevano causato lo stallo, la nuova riforma portò gli elettori a dividere il voto. Da una parte la scheda a favore del candidato Premier, dall’altra la scheda per il partito da eleggere alla Knesset. Senza l’incentivo a votare per uno dei partiti principali in modo che il suo principale rappresentante potesse diventare Primo ministro, gli elettori furono più inclini a votare per partiti più piccoli e marginali, frammentando ulteriormente il panorama politico”.

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