Camera di Consiglio

STALKING E FACEBOOK – La Suprema Corte è tornata ad occuparsi del reato si atti persecutori (ossia lo stalking), disciplinato dall’art. 612 bis del Codice di procedura Penale, secondo il quale deve essere punito colui che  “con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita”. Tale reato è aggravato se commesso dal coniuge, anche separato o divorziato.

Nel caso di specie, l’ex marito si vedeva confermare dalla Corte d’Appello la sentenza di primo grado, con la quale era stato condannato proprio per il predetto reato. Procedeva, dunque, a ricorrere per Cassazione, adducendo una serie di motivazioni incentrate sulla dedotta insussistenza degli elementi costitutivi del reato di cui all’art. 612 bis c.p., che la Corte non ha ritenuto di accogliere, tra i quali, forse il più interessante era l’assunto secondo il quale non poteva ravvisarsi tale reato perché l’ex moglie pubblicava immagini serene e felici sulla piattaforma “Facebook”.

In particolare, deduceva la Suprema Corte che: “il dissentire dalla ricostruzione compiuta dai giudici di merito e il voler sostituire ad essa una propria versione dei fatti, costituisce una mera censura di fatto sul profilo specifico dell’affermazione di responsabilità dell’imputato, anche se celata sotto le vesti di pretesi vizi di motivazione o di violazione di legge penale, in realtà non configurabili nel caso in esame, posto che il giudice di secondo grado ha fondato la propria decisione su di un esaustivo percorso argomentativo, contraddistinto da intrinseca coerenza logica e immune dai vizi denunciati”. La Corte, dunque, nell’esaminare la vicenda e la sentenza di secondo grado, la riteneva immune da vizi.

La corte territoriale, infatti, aveva fornito puntuale risposta ai rilievi difensivi, evidenziando come il giudizio sulla attendibilità delle dichiarazioni accusatorie della persona offesa, che inevitabilmente si estende anche al profilo della credibilità personale di quest’ultima, oltre che sulla coerenza della narrazione proveniente dalla donna, trovi fondamento su di una serie di riscontri “costituiti dagli interventi delle forze dell’ordine in flagranza di reato, dalle certificazioni mediche, dalla deposizione della figlia e dalle stesse dichiarazioni spontanee e memorie provenienti da parte dell’imputato”.

La donna era stata vittima di episodi di pedinamento per un periodo di circa trentacinque/quaranta giorni, dopo la revoca della misura del divieto di avvicinamento all’ex moglie, disposta nei confronti dell’imputato stesso. Si aggiungevano, poi, ulteriori molestie, poste in essere attraverso i numerosi messaggi Whatsapp inviati dal ricorrente all’ex moglie, rappresentate da continue “minacce, insulti, promesse di ritorsione, richieste intimidatorie di conoscere informazioni sulla sua vita personale e lavorativa”.

E nessuna questione circa lo stato di “prostrazione psico-fisico” da parte della donna, rilevato immediatamente dai Carabinieri e confermato dalla documentazione sanitaria prodotta dalla parte civile, che ne testimoniava il perdurare a distanza di qualche mese dal verificarsi dei fatti.

E tale ricostruzione non poteva essere superata dalla pubblicazione di immagini serene e felici da parte dell’ex moglie sul profilo “Facebook”: la commissione del reato non poteva, infatti, essere messa in discussione solo alla luce della “pubblicazione”, da parte della donna, “sul proprio profilo personale su Facebook, di «immagini felici della propria persona”, poiché comprovato. L’uomo, veniva, dunque, condannato.

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