Camera di Consiglio

LA CASSAZIONE RITORNA SUL “CONSENSO INFORMATO”- Il Consenso Informato medico è il processo con cui il Paziente decide in modo libero e autonomo, dopo che gli sono state presentate una serie specifica di informazioni, rese a lui comprensibili da parte del medico o equipe medica, quali se iniziare o proseguire il trattamento sanitario previsto (definizione tratta dalla Legge n. 219/2017, art.1, commi 2 e 3). Tali informazioni devono essere fornite dal medico (o dall’equipe) e della proposta se ne deve occupare la struttura sanitaria. Il consenso deve essere sempre libero ed esplicito e la sua mancanza è idonea a generare un danno non patrimoniale con conseguente obbligo di risarcimento, poiché esso costituisce legittimazione e fondamento del trattamento sanitario.

Continua, la Corte, a precisare che il consenso informato deve essere acquisito anche qualora la probabilità di verificazione di un possibile evento dannoso o pericoloso per la salute sia così scarso da rasentare il caso fortuito, non potendo, né il medico, né la struttura sanitaria, omettere alcunché al paziente.

La Corte di Cassazione è tornata, con una recentissima sentenza, ad occuparsi di tale questione: nel caso di specie, un paziente si vedeva accolto il ricorso con cui aveva avanzato richiesta di risarcimento danni contro l’Azienda Ospedaliera e il medico oculista che lo aveva avuto in cura, richiesta respinta sia in primo che in secondo grado. Nel caso in esame, il ricorrente fondava le proprie pretese adducendo che la condotta del medico oculista che lo aveva seguito fosse stata del tutto negligente: questi, invero, gli aveva somministrato una terapia farmacologica al di fuori del protocollo medico e senza monitorarlo prima e dopo il periodo di trattamento, provocandogli, poi, un’insufficienza renale.

La Corte evidenzia il fatto che, nel caso in cui il paziente adduca l’inadempimento, è onere della struttura e del medico provare di aver adempiuto all’obbligazione (ossia di aver fornito al paziente ogni tipo di informazione chiara ed utile ad ottenere il suo consenso informato). Continuava, la Suprema Corte, ad evidenziare come nel merito era stato accertato che il medico avesse somministrato al paziente una terapia per “uveite acuta bilaterale” che era del tutto al di fuori da ogni Protocollo medico, né il paziente era stato di fatto sottoposti a controlli ante e post terapia. Tuttavia, in seguito, come sopra argomentato, si verificavano danni renali, causati da un componente del farmaco.

Emergeva del tutto chiaramente, dunque, secondo la Suprema Corte, che non era assolutamente stato dimostrato che il medico curante avesse effettivamente adempiuto al proprio obbligo di fornire un’esposizione completa ed esaustiva di tutte le conseguenze possibili derivanti dal trattamento sanitario, nemmeno su quelle che avrebbero potuto verificarsi (ivi compreso il danno ai reni).

Pertanto, il paziente, non ha mai potuto liberamente accettare consapevolmente gli eventuali effetti collaterali derivanti dalla cura.

La violazione del consenso informato ha come conseguenza quello di provocare un danno non patrimoniale, il cui ristoro, diversamente dal danno patrimoniale, non può mai corrispondere alla relativa esatta commisurazione, imponendosene, dunque, la valutazione equitativa: spetterà, dunque, al Giudice di merito accertare l’effettiva consistenza del pregiudizio allegato dal paziente.

Pertanto, la Cassazione rinviava alla Corte d’Appello competente per la liquidazione del quantum dovuto al ricorrente, anche attraverso una liquidazione “rimessa al prudente criterio valutativo del Giudice”.

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