Cronache dai Palazzi

Ultimo Consiglio europeo per Paolo Gentiloni e penultimo incontro al Quirinale prima delle dimissioni che precederanno l’insediamento della nuova squadra dell’esecutivo. Con Sergio Mattarella il premier uscente ha sintetizzato  gli argomenti principali in discussione a Bruxelles tra cui la governance dell’eurozona, l’unione bancaria, le regole sulla finanza pubblica, ed inoltre, la gestione della sicurezza e delle frontiere esterne, le norme sui migranti e i rifugiati. Intenzione di Gentiloni è quella di garantire all’Italia una piena rappresentanza in Europa anche in un momento difficile come quello attuale, in cui il nostro Paese è impegnato nelle elezioni  dei presidenti delle due Camere e, di seguito, la formazione del nuovo governo, in sostanza due matasse non semplici da sbrogliare.

Il governo Gentiloni assume ora le sembianze di un governo tecnico per il disbrigo degli affari correnti, tenendo tra l’altro conto delle forze politiche e dei nuovi equilibri dettati dalle elezioni del 4 marzo. Una situazione di prorogatio che perdurerà fino all’insediamento del nuovo inquilino a Palazzo Chigi.

Il cosiddetto ‘governo tecnico’ guidato in questo frangente da Paolo Gentiloni sarà comunque chiamato a prendere decisioni fondamentali qualora gli eventi lo richiedano – un esempio è quello del 1998 quando il governo decise per le basi militari italiane durante la guerra in Kosovo – e come normalmente accade non mancheranno le emergenze da fronteggiare, a partire dal fronte dei migranti e quindi l’emergenza sbarchi, un tema per cui deciderà ancora il ministro dell’interno Marco Minniti, fino all’insediamento del nuovo esecutivo. Anche sul Def (Documento di economia e finanza) continua a lavorare l’uscente ministro dell’economia Pier Carlo Padoan.

Per quanto riguarda il settore dei migranti escono allo scoperto i primi dati per cui nel 2016 l’accoglienza sarebbe costata all’Italia oltre 1,7 miliardi di euro, dei quali 1,29 miliardi destinati alla prima accoglienza, 266 milioni per la seconda accoglienza, e 111,5 milioni per l’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati. Dall’Unione europea sarebbero arrivati circa 8,1 milioni attraverso le erogazioni dell’agenzia “Frontex” e 38,7 milioni dal Fondo asilo, migrazione e integrazione, il cosiddetto Fami. Il nostro Paese, infine, deve colmare anche un’altra spesa che corrisponde a 762,5 milioni che nel mese di ottobre 2017 sono stati spesi per colmare le mancate ricollocazioni negli altri Paesi europei, membri dell’Ue. Tutte le suddette cifre sono state elaborate nel corso della Relazione sulla gestione del fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo per gli anni 2013-2016, per cui ha deliberato nei giorni scorsi la Corte dei conti. Il ministro dell’Interno Minniti, nella direttiva del 2018, ha sottolineato che “nonostante la virtuosa pianificazione di rientro di situazioni pregresse, l’assenza del necessario e cospicuo aumento delle risorse destinate alla gestione del sistema accoglienza, comporterà continue richieste di integrazione fondi, in assenza delle quali verrebbero a generarsi debiti fuori bilancio”. In pratica le risorse a disposizione risulterebbero, come di frequente, insufficienti mentre l’Europa, dal canto suo, reclama i progetti finanziati e i fondi elargiti: per la prima accoglienza 7,6 miliardi di euro ripartiti tra gli Stati membri tra il 2015 e il 2017 e, ultimamente, oltre 3 miliardi rifinanziati alla Turchia per fronteggiare i flussi migratori provenienti dai Balcani.

Secondo le rilevazioni dei giudici contabili, inoltre, sul territorio italiano la relocation funziona comunque a rilento. Gli accordi presi ben tre anni fa prevedevano l’accoglienza di almeno 39.600 richiedenti asilo da parte di altri Paesi Ue, ai quali occorre aggiungere altri 54 mila che dovevano essere proporzionalmente ripartiti tra Italia e Grecia. Per quanto riguarda la richiesta di asilo, infine, la registrazione contabile registra tempi troppo lunghi e il sistema, così come è strutturato, non funzionerebbe nel migliore dei modi. Poche verifiche, inoltre, sugli standard dei centri presenti su tutto il territorio nazionale. Dal 2008 al 2016 sono state prese in esame circa 340 mila pratiche con un costo per l’Italia di circa 69,3 milioni di euro. Nel 2016 delle 91.102 domande presentate ne sono state respinte il 56 per cento, in pratica quelle corrispondenti ai migranti economici. Nel 2017, invece, le domande sono state 130.119, il 58 per cento delle quali non accolte.

In sostanza coloro che non rientrano nel sistema di protezione diventano di fatto migranti ‘irregolari’, per cui “restano sul territorio senza diritti, facilmente inseribili anche nei circuiti delle attività illecite e malavitose”, come relaziona la Corte dei conti, aggiungendo: “Si dovrebbe quindi evitare di riconoscere ‘un diritto di permanenza indistinto’ a tutti coloro che sbarcano, e ammettere un’accoglienza di molti mesi (se non anni) durante i quali i migranti, non avendone titolo, vengono di fatto inseriti anche nei cosiddetti percorsi di formazione professionale finalizzati all’integrazione, con oneri finanziari gravosi a carico del bilancio dello Stato”.

Su un altro versante l’Unione europea discute della web tax al 3 per cento. “Non è una tassa antiamericana, non è una tassa per colpire i Gafa”, ha sottolineato il commissario agli Affari economici Pierre Moscovici. Gafa è l’acronimo che corrisponde a Google-Amazon-Facebook-Apple, le major americane che rappresentano imprese globali eccellenti e affermate, note anche per la loro capacità di sfuggire alla tassazione.

La tassa sul web è ovviamente già al centro di una delicata diatriba internazionale, per cui il presidente statunitense Trump ha già annunciato il suo ‘no’ ad una imposta globale che penalizzi i colossi digitali, considerando la decisione europea per certi versi una provocazione. Si annuncia bagarre anche tra gli stessi Paesi europei, cinque dei quali (Irlanda, Lussemburgo, Olanda, Cipro e Malta) nettamente contrari alla web tax. Italia, Germania, Francia, Spagna e Regno Unito sostengono invece l’introduzione della nuova tassa e affermano: “In assenza di consenso a livello internazionale al G20 e all’Ocse dobbiamo avanzare a livello dell’Unione europea”.

Nei dettagli la web tax dovrebbe essere un’imposta sui ricavi e sarà temporanea, in attesa di una riforma comune del regime di tassazione imposto alle società per le attività digitali; una riforma che dovrebbe essere discussa all’interno del G20 e in ambito Ocse, per l’appunto, e che dovrebbe integrare i meccanismi relativi alla doppia imposizione.

Secondo le stime, la web tax, introdotta per uscire dal “buco nero” dell’erosione della base fiscale, come ha affermato Pierre Moscovici, potrebbe generare un gettito complessivo di 5 miliardi. Verrebbe applicata sui ricavi dedotti dalla vendita di spazi pubblicati online e di dati collegati ad informazioni fornite dagli utenti, ed inoltre da attività di intermediazione digitale che consentono agli utenti di interagire per la compravendita di beni e servizi. Sarà infine riscossa dagli Stati membri, e verrà applicata solo alle imprese che registrano un ricavo annuo complessivo a livello mondiale di 750 milioni, dei quali 50 milioni generati all’interno dell’Unione europea. La web tax non sarebbe destinata alle start-up e alle scale-up più piccole, imprese ad alta innovazione in rapida crescita.

La decisione di colpire i ricavi e non i profitti incontra comunque delle reticenze anche all’interno dell’eurozona: “L’Europa non può procedere su questo da sola e se stiamo ai principi, alle pratiche internazionali, a essere tassati sono i profitti non il ‘turnover’, è questa regola che dobbiamo difendere”, ha spiegato Emma Marcegaglia, presidente dell’Eni e di BusinessEurope  che a Bruxelles rappresenta le Confindustrie d’Europa. La proposta a lungo termine riguarda a sua volta gli utili generati nel territorio nazionale anche nel caso in cui un’impresa non abbia una presenza fisica. Infine, una piattaforma digitale sarà ritenuta una “presenza digitale” qualora superi la soglia di 7 milioni di euro di ricavi annuali all’interno di uno Stato dell’Unione europea.

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