Loveless (Film, 2018)

Andrey Zvyagintsev (1964) è un interessante regista russo nato in Siberia, che in Italia conosciamo per aver vinto il Leone d’Oro a Venezia, nel 2003, con Il ritorno e per i successivi Izgnanie, Elena e il recente Leviathan (2014), che ha vinto il Golden Globe come miglior film straniero. Loveless giunge quattro anni dopo ed è un piccolo capolavoro introspettivo che indaga il modificarsi dei sentimenti, affondando il coltello nella piaga di una società malata che produce famiglie imperfette e prive d’amore.

In breve la trama. Boris e Zhenya si stanno separando, vogliono vendere l’appartamento, litigano in continuazione e si disinteressano del figlio dodicenne Alyosha, che vorrebbero internare in un orfanatrofio per essere liberi di vivere le loro nuove esistenze. Infatti entrambi già hanno organizzato il futuro, l’uomo accanto a una donna giovane che è in attesa di un figlio, la donna insieme a un ricco uomo maturo, innamorato di lei, che vorrebbe sposarla. A un certo punto il figlio scompare e cominciano le disperate ricerche per ritrovarlo. Non anticipiamo altro, perché il film è in distribuzione anche in Italia, pure se troverà poco spazio nelle nostre sale troppo impegnate a spacciare – scusa Battiato – immondizia di celluloide.

Loveless costruisce un mondo arido, devastato da una guerra infinita tra Russia e Ucraina che produce milioni di morti, dove in personaggi svolgono lavori impersonali in aziende dirette da fondamentalisti ortodossi, composto da famiglie che si sfaldano per totale incapacità affettiva. I personaggi che Zvyagintsev mette in campo sono tutti negativi, a parte il bambino, vittima silenziosa e in lacrime – sin dalle prime sequenze – di genitori egoisti incapaci di amare. Padre e madre fanno a gara a scaricare il figlio, persino la nonna non ne vuol sentir parlare, quando lui fugge di casa la ricerca non è improntata a pietà e pentimento, ma pare una nuova seccatura imposta da un figlio che ha avuto il tempismo di sparire al momento giusto.

Il cinema di Zvyagintsev deriva dall’incomunicabilità di Antonioni (emblematica la sequenza del grande ascensore e del silenzio che cala come una cappa di piombo) e dalla crisi della coppia di Bergman, ma il suo cinema è più cupo e claustrofobico, un vero e proprio pugno nello stomaco, immerso in una realtà priva di speranza. Il regista usa il meccanismo del thriller psicologico in una pellicola dal montaggio lento e compassato, fotografata in modo gelido e spettrale tra le nevi della periferia di Mosca, con una colonna sonora funebre, quasi cimiteriale. Lo spettatore si troverà immerso in un cupo e profondo dramma che lo coinvolgerà, alla scoperta di sé stesso e dei suoi difetti più insondabili.

Interpreti straordinari, dal piccolo Matvey Novikov nei panni del figlio, che con pochi sguardi, lacrime e drammatici silenzi è il ritratto della disperazione, a una tragica madre (Mariana Spivak) calata alla perfezione nel ruolo di una donna imperfetta che non è stata educata ad amare. Alexey Rozin (il padre) è l’uomo che non sa decidere, inconcludente, arido, che vive per i suoi piccoli egoismi, succube del giudizio degli altri, incapace di provare veri sentimenti. La fotografia di Mikhail Krichman è un valore aggiunto che rende il film un gioiello per immagini. Imperdibile. Un piccolo capolavoro.

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Regia: Andrey Zvyagintsev. Soggetto: Andrey Zvyagintsev. Sceneggiatura: Andrey Zvyagintsev, Oleg Negin. Fotografia: Mikhail Krichman. Montaggio: Anna Mass. Musica: Andrey Dergachev, Evgueni Galperine, Sacha Galperine. Paesi di Produzione: Russia, Belgio, Germania. Genere: Drammatico. Durata: 126’. Interpreti: Mariana Spivak (Zhenya), Alexey Rozin (Boris), Matvey Novikov (Alyosha), Marina Vassilyeva (Masha), Andris Keishs (Anton), Daria Pisareva, Yanina Hope, Maxim Stoianov, Varvara Shmykova, Aleksey Fateev. Premio della Giuria Festival di Cannes 2017. Nomination Miglior Film Straniero Golden Globe 2918. Candidato russo Premi Oscar 2018.

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[NdR – L’autore dell’articolo ha un suo blog “La Cineteca di Caino”]

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