Ancora sullo Jus soli

Avevo appena scritto, dopo il naufragio dello Jus soli al Senato: “e ora speriamo di non sentirne più parlare”. Pia illusione! Il coretto del gallinaio buonista ha continuato. Il serafico Cuperlo chiede che Mattarella prolunghi la legislatura di due settimane, in modo che il Parlamento possa votare la legge. A parte l’assurdo della richiesta (se si dovesse allungare un Parlamento per le leggi pendenti, voteremmo nel Tremila), ci spiega Cuperlo da dove spunterebbe miracolosamente una maggioranza, che in Parlamento, ripetiamolo fino alla nausea, non c’è? Però il rimedio l’ha trovato l’ineffabile Pollastrini (Saepe conveniunt nomina…): “Proviamoci con la fiducia”. Primo: se su un tema di cittadinanza si decidesse con la fiducia, questo sarebbe, sì, un oltraggio alla democrazia e alla sovranità popolare; secondo: chi gliela la darebbe la fiducia a un governo che sta con le valige pronte per andarsene? Veramente ai centristi contrari alla legge tremerebbe il polso a far cadere l’ottimo Gentiloni un mese prima del dovuto? Insomma, la stoltizia umana non ha limiti.

Però seriamente: il problema esiste, è umanamente rilevante e va trattato senza paraocchi ideologici, di sinistra o di destra. Siamo diventati, che ci piaccia o no, un Paese d’immigrazione. Non possiamo lasciare nel vago la sorte di chi, figlio di immigranti, nasca sul nostro territorio. Dobbiamo dargli la possibilità di diventare cittadino italiano, ma a certe condizioni e con certe cautele. Non siamo un Paese sterminato da popolare, come sono ancora Argentina, Canada, Australia; siamo un piccolo Paese, non abbiamo grandi risorse naturali, la nostra risorsa, per millenni, è stato il nostro cervello creativo, che a sua volta si nutre di una cultura specifica, nostra; non bantú o srilankese. Abbiamo l’obbligo, se vogliamo sopravvivere come comunità nazionale, , di conservare questa identità. Essenziale è mantenere la predominanza dell’elemento originale nella nostra popolazione.

So bene, d’altro lato, che la nostra popolazione diminuisce e dobbiamo mantenerla artificialmente al livello necessario importando gente da fuori. Che altri vengano in Italia a fare lavori utili e spesso necessari, va benissimo e ovviamente meritano parità di diritti sociali e completo rispetto, purché altrettanto rispetto vi sia da parte loro ai nostri costumi e alle nostre leggi. Accade, nei fatti, che una parte di questa immigrazione divenga stabile si trasmetta nel tempo alla discendenza: è a questo punto che si deve essere attenti, quasi inflessibili. La cittadinanza deve essere, in una sola parola, meritata. Perciò la legge ora fallita è sbagliata e va rivista.

Prima o poi dovremo tornare ad occuparcene, ma ora gli interrogativi sul nostro futuro mi paiono ben altri. Perciò, veramente (per ora) de hoc satis.

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