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USA 1915, il linciaggio di Leo Frank

17 agosto 1915, esattamente centodieci anni fa, veniva linciato Leo Frank, epilogo ben più drammatico della vicenda del militare francese Alfred Dreyfus ingiustamente condannato con l’accusa di tradimento, solo perché ebreo. Ma anche alla base della vicenda di Frank si ritrova la stessa miscela di pregiudizio, isteria collettiva e antisemitismo.

Atlanta, primavera del 1913. Una città in pieno fermento industriale, ma anche preda di un nervosismo crescente. Cresce il malcontento per le condizioni di lavoro, per il dilagare delle disuguaglianze, per una modernità che avanza troppo in fretta. In mezzo a questo clima, i toni si fanno aspri. Alla conferenza sul lavoro minorile, organizzata proprio in quei giorni, le soluzioni discusse sfiorano l’isteria politica: non si cerca solo di tutelare i bambini, si cerca un capro espiatorio. E lo si trova nelle “fabbriche ebraiche”, come qualcuno non esita a definirle. Atlanta, scrive lo storico Leonard Dinnerstein, è una città che si avvita su sé stessa, in preda a condizioni patologiche, incapace di gestire i propri problemi urbani, scolastici, familiari e morali.

È in questo contesto, non fuori da esso, che esplode il caso Mary Phagan. Una tredicenne, bionda, povera, impiegata alla National Pencil Company, viene trovata strangolata nel seminterrato della fabbrica. Il giorno del Memorial Day confederato. Un simbolo involontario che scatena un furore identitario. La sua morte colpisce nel profondo il cuore della Georgia rurale, che vede in quella giovane operaia la purezza violata dal caos moderno.

Tutti vogliono giustizia. O meglio: vendetta. Immediata possibilmente. E Leo Frank, giovane direttore ebreo della fabbrica, diventa immediatamente il sospettato ideale. È istruito, del Nord, forestiero, ed è ebreo. Un cocktail perfetto per innescare il processo mediatico prima ancora che quello giudiziario. Le prove contro di lui sono deboli, costruite su testimonianze incerte e contraddittorie. Ma non importa. L’opinione pubblica ha già emesso la sentenza.

Il processo è un circo. Gli avvocati difensori vengono insultati per strada. Tra i testimoni anche il guardiano della fabbrica, Jim Conley, che secondo ipotesi plausibili fu il vero assassino. I giornali alimentarono il clima d’odio e il giudice, spaventato dalla folla, si piegò ed emise una sentenza di condanna a morte. E quando il governatore John Slaton, mosso da un sussulto di coscienza, commutò la pena capitale in ergastolo, venne definito “traditore della razza” e costretto a fuggire dallo Stato. La rabbia, intanto, ha superato ogni argine. La notte del 17 agosto, un commando di cittadini perbene, tra cui avvocati, medici, commercianti, portò via Frank dalla prigione per impiccarlo a un albero nei pressi di Marietta, la cittadina natale di Mary. Nessuno sarà mai punito. Nessuno si dichiarerà colpevole. Tutti, però, sapevano. Quel linciaggio non fu solo un crimine. Fu un messaggio. In America, anche il Dreyfuss di turno può morire impiccato, se il pregiudizio è abbastanza forte e la paura abbastanza profonda.

Ma da quell’orrore nacque anche un anticorpo: l’Anti-Defamation League, fondata nel 1913, proprio per reagire all’onda montante dell’antisemitismo e della violenza cieca. Oggi la ADL esiste ancora, è attiva negli Stati Uniti e a livello globale, combatte l’odio etnico, religioso, digitale, e lavora con istituzioni, scuole e imprese per promuovere cultura dei diritti e consapevolezza. Non sempre ascoltata, certo. Ma presente, vigile e necessaria.

Il caso Leo Frank non è soltanto una pagina di cronaca nera. È una radiografia sociale. Il corpo di Mary fu la miccia, ma il combustibile era già lì: povertà, ignoranza, rabbia, invidia, paura del diverso. Ingredienti che, cento anni dopo, conosciamo fin troppo bene. E se oggi ci illudiamo che certe cose non possano più accadere, forse è solo perché non stanno accadendo nel nostro cortile. Non ancora.

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