Un padre, una figlia (Film, 2016)

Cristian Mungiu ancora una volta realizza un ritratto cinico e disincantato della Romania, narrando quel che è diventata dopo la rivoluzione del 1989 che portò in modo violento alla caduta di Ceausescu. In pratica niente è cambiato, sembra dire Mungiu, governa ancora la vecchia classe dirigente corrotta e il paese continua a essere invivibile, al punto di desiderare soltanto la fuga verso un mondo migliore. Un padre, una figlia vince il premio per la Miglior Regia al Festival di Cannes 2016 – Mungiu aveva vinto la Palma d’Oro nel 2007, con 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni – e conferma tutte le qualità poetico-stilistiche di un regista che ci aveva regalato una straordinaria messa in scena nell’inquietante Oltre le colline (2012).

In breve la trama. Romeo Aldea è un medico disincantato e senza speranze per il futuro che vive tra i boschi e le montagne di una piccola città della Transilvania. Il suo unico vero amore è per la figlia Eliza, cresciuta con l’idea di abbandonare la Romania dopo il liceo per andare a studiare a Londra, dove potrà condurre una vita migliore. Purtroppo il progetto paterno viene messo in crisi da un tentativo di stupro che coinvolge la figlia un giorno prima delle prove scritte, facendola entrare in uno stato di choc. Romeo deve accantonare principi e ideali con cui ha sempre cresciuto Eliza per scendere a compromessi con un mondo corrotto nel tentativo di far superare l’esame alla figlia. Lo scenario si completa con una relazione extramatrimoniale del padre scoperta dalla figlia, una moglie depressa che non riesce più a reagire a niente, una madre malata terminale e un fidanzato di Eliza che il padre non sopporta, sospettandolo persino di aver visto lo stupro senza denunciare il colpevole.

Tutto resta in sospeso, con un finale aperto che non sconcerta ma è il miglior modo di ritrarre uno spaccato di vita con realismo, senza giudicare eventi e persone. Mungiu non è interessato né alla scoperta del colpevole né a sapere se la ragazza supererà l’esame e si trasferirà all’estero come desidera il padre. Il regista vuole soltanto analizzare da un punto di vista psicologico il rapporto padre – figlia, descrivendo un amore eccessivo, iperprotettivo, persino invadente, di un uomo che vorrebbe decidere sul destino di una ragazza che è diventata la sua unica ragione di vita. In Romania non c’è futuro, lui lo sa bene perché ha lottato per cambiare il paese, ma adesso ha alzato bandiera bianca, adesso tocca ad altri, come dice in un intenso dialogo, ché lui ha già dato il suo contributo. Un personaggio cinico e realista, pragmatico, tutto sommato onesto, questo padre votato anima e corpo al futuro di una figlia che vorrebbe diverso dal suo passato e dal suo presente. Il resto dei personaggi è solo di contorno alla figura del padre – uno straordinario Adrian Titieni – vero e proprio alter ego del regista, il carattere meglio definito della storia.

Cristian Mungiu dimostra uno stile sopraffino fatto di fotografia cupa e glaciale, riprese nervose realizzate con la macchina a mano, straordinarie soggettive e lunghi piani sequenza. Inquadrature originali mettono in primo piano i volti dei protagonisti sugli specchietti retrovisori delle auto e nei vetri delle finestre. Campi e controcampi perfetti, dialoghi secchi e realistici, senza eccessi verbosi, per una messa in scena teatrale che compone un vero e proprio spaccato di vita. Il regista utilizza gli strumenti del cinema di genere in una pellicola che è introspettiva e profonda, lenta come piace ai cinefili ma non pedante e didascalica, quando ricorre a sequenze ad alta tensione che precipitano lo spettatore in un crescendo angoscioso.

Se Un padre, una figlia fosse un’opera letteraria non sarebbe un romanzo ma un racconto, perché analizza un particolare dell’esistenza, un evento che sconvolge la vita nei pochi giorni in cui si svolge un esame di maturità. Mungiu traccia un ideale punto d’inizio del racconto e chiude all’improvviso, quando decide di aver analizzato a sufficienza il generale (la situazione socio-politica della Romania) e il particolare (la rete di rapporti all’interno di un gruppo familiare). Molto Bergman, persino Visconti e il nuovo cinema introspettivo francese, con riferimenti al vecchio realismo sovietico, sembrano alla base della poetica di un regista capace di narrare piccole storie inserendole in un contesto sociale, partendo da un’esistenza individuale per raccontare il disagio di un’intera nazione. Se amate il cinema dovete proprio vederlo.

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Regia: Cristian Mungiu. Soggetto e Sceneggiatura: Cristian Mungiu. Fotografia: Tudor Vladimir Panduru. Montaggio: Mircea Olteanu. Scenografia: Simona Paduretu, Anca Perja. Costumi: Brandusa Ioan. Trucco: Parpala Mara, Nastasia Mateiu. Produttori: Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne, Jean Labadie, Vincent Maraval, Cristian Mungiu, Gregoire Sorlat. Produttore Esecutivo: Tudor Reu. Paesi di Produzione: Romania, Francia, Belgio. Casa di Produzione: Mobra Films Productions. Distribuzione: Bim. Durata: 128’. Genere: Drammatico. Interpreti: Adrian Titieni (Romeo), Lia Bugnar (Magda), Maria-Victoria Dragus (Elisa), Vlad Ivanov (Ispettore Capo), Malina Manovici (Sandra), Petre Ciubotaru (Bulai), Rares Andrici (Marius), Gelu Colceag (Presidente di Commissione), Ioachim Ciobanu (Sospettato 1), Gheorghe Ifrim (Agente Sandu), Emanuel Parvu (Accusatore Ivascu), Valeriu Andriuta (Sospettato 4), Claudia Susanu (Ragazza Pulizie), Adian Vancica (Gelu), Liliana Mocanu (Siognora Bulai), Tudor Smoleanu (dr. Prandele), Andrei Morariu (il soldato), Costantin Cojocaru  (Locksmith), Robert Emanuel (amico del padre), Petronela Grigorescu (madre di una bambina), Claudiu Dumitru (Sospettato 2), Lucian Ifrim (Albu Marian), Orsolya Moldovan (Csilla), Enico Benczo (signora Mariana), Mihai Coroianu (Sospettato 3), Alexandra Davidescu (madre di Romeo), Mihai Giuritan (guardia del corpo), David Hodorog (Matei). Titolo Originale: Bacalaureat.

©Futuro Europa®

[NdR – L’autore dell’articolo ha un suo blog “La Cineteca di Caino”]

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