Corner

Il vero Unabomber

In Italia, quando si parla di Unabomber, si pensa subito al caso irrisolto degli attentati con ordigni esplosivi tra il Veneto e il Friuli-Venezia Giulia, tra gli anni ’90 e i primi anni 2000. Un caso senza un colpevole accertato, un mistero che ha tenuto banco nelle cronache, alimentato più dalla pigrizia dei giornalisti che dalla verità. Perché, diciamolo, chiamare Unabomber un criminale sconosciuto non è frutto di un’indagine acuta, ma della necessità di appiccicare un’etichetta sensazionalistica su un caso senza volto. Il nome è stato preso in prestito, ma il vero Unabomber è un altro.

Il vero Unabomber era Theodore Kaczynski. Oggi, esattamente nel 1998, veniva condannato a quattro ergastoli più 30 anni di carcere per una serie di attentati dinamitardi che, tra il 1978 e il 1995, seminarono il terrore negli Stati Uniti. Kaczynski non era un criminale comune. Era un ex professore di matematica, un genio ribelle che aveva scelto di vivere come un eremita nei boschi del Montana, nutrendo un odio crescente per il progresso tecnologico. Ma non si limitò a scrivere manifesti contro la società industriale: dal suo rifugio, per quasi vent’anni, costruì bombe artigianali con una precisione scientifica e le inviò a docenti universitari, dirigenti di compagnie aeree e imprenditori tecnologici.

Gli attentati attribuiti a lui furono 16, causando la morte di 3 persone e il ferimento di 23. Colpì per la prima volta nel 1978 all’Università di Chicago, piazzando un pacco esplosivo che ferì un addetto alla sicurezza. Nel 1980 spedì una bomba all’American Airlines Flight 444, che non esplose completamente, evitando un disastro in volo. Nel 1985 uccise il titolare di un negozio di computer e, nel 1994, fece esplodere un pacco che uccise un dirigente della pubblicità. Ma il colpo che lo portò alla ribalta fu l’attentato del 1995, quando colpì un dirigente della lobby del legname in California.

Ciò che rese il suo caso unico fu il modo in cui venne catturato. Fu proprio il suo manifesto, La società industriale e il suo futuro, pubblicato nel 1995 dal New York Times e dal Washington Post per ordine dell’FBI, a tradirlo. Suo fratello, leggendo quelle parole, riconobbe lo stile e lo denunciò. Il 3 aprile 1996, un commando dell’FBI fece irruzione nella sua capanna nel Montana, trovando prove inconfutabili: esplosivi, manoscritti, appunti sulle sue vittime. Fine della latitanza.

Il 22 gennaio 1998 Kaczynski si dichiarò colpevole, evitando così la pena di morte. Il 4 maggio dello stesso anno, la condanna: quattro ergastoli più 30 anni di carcere. Non un mistero irrisolto, non un nome di comodo per tappare un buco di cronaca. Il vero Unabomber esisteva, e oggi è un capitolo chiuso della storia criminale americana.

Theodore Kaczynski è morto il 10 giugno 2023 nella sua cella del carcere federale di Butner, in North Carolina. Ufficialmente, suicidio. Si è impiccato all’età di 81 anni, dopo essere stato trasferito dalla prigione di massima sicurezza di Florence, in Colorado, a una struttura sanitaria per detenuti.

Dimenticato o ricordato? Dipende da chi risponde alla domanda. Per l’America, Unabomber è un capitolo chiuso, un terrorista eliminato dal sistema giudiziario e consegnato alla storia dei criminali più temuti del Novecento. Ma non del tutto sepolto. Il suo manifesto, La società industriale e il suo futuro, continua a circolare in ambienti anti-tecnologici e neo-luddisti, letto e studiato come se fosse un documento profetico. Alcuni lo considerano un folle, altri un visionario che aveva intuito prima di tutti i pericoli del progresso sfrenato.

Quando fu condannato nel 1998, i commenti furono un misto di sollievo e inquietudine. Sollievo perché l’FBI aveva chiuso un caso durato quasi vent’anni. Inquietudine perché, sotto l’etichetta di terrorista, Kaczynski nascondeva una mente brillante, un uomo che non uccideva per denaro o per vendetta personale, ma per un’ideologia. Lo stesso giudice che lo condannò definì il suo caso “la perfetta incarnazione del paradosso tra intelligenza e follia”.

Oggi, il suo nome riemerge ciclicamente nei dibattiti sul rapporto tra uomo e tecnologia. Ma il punto resta uno: le sue parole hanno lasciato un segno, le sue azioni hanno lasciato vittime. E tra un genio e un assassino, è sempre bene ricordare da che parte pende la bilancia.

©Futuro Europa® Riproduzione autorizzata citando la fonte. Eventuali immagini utilizzate sono tratte da Internet e valutate di pubblico dominio: per segnalarne l’eventuale uso improprio scrivere alla Redazione

Condividi
precedente

Cronache dai Palazzi

Rispondi

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *