La saga di “Amici miei”

Amici miei (1975) è una commedia simbolo del nostro cinema anni Settanta. Silvia Dionisio rappresenta il solo elemento sexy della pellicola, perché interpreta una parte breve ma intensa nei panni della spregiudicata Titti, giovane amante bisessuale dello squattrinato conte Mascetti (Ugo Tognazzi), e non perde occasione per mostrarsi senza veli. Ricordiamo alcune sequenze sul letto completamente nuda e quando vaga per le case degli amici dove il conte si rifugia per sfuggire alla moglie. Silvia Dionisio è doppiata in toscano e forse la sequenza più vicina alla commedia sexy è quando Tognazzi la scopre ad amoreggiare con una provocante bionda. “Sei l’unico uomo della mia vita”, le aveva detto. Ed era vero, perché l’altro amore era una donna.

Per parlare a dovere della saga Amici miei servirebbe un libro (ed è stato già fatto!), ma in questa sede ci limiteremo a dire che si tratta del racconto delle zingarate di un gruppo di cinquantenni che passa il tempo organizzando scherzi e burle ai danni di amici. Il tentativo è quello di esorcizzare la vecchiaia e la morte che in ogni caso procedono ineluttabili. L’idea è di Pietro Germi, ma la realizza Monicelli dopo la morte del grande regista. L’azione si svolge a Firenze, mentre nel progetto originale si parlava di Bologna. Gli attori sono bravissimi: Ugo Tognazzi, Philippe Noiret, Gastone Moschin, Duilio Del Prete, Adolfo Celi, Bernard Blier, Milena Vukotic, Olga Karlatos. Piero De Bernardi, Leo Benvenuti e Tullio Pinelli sceneggiano uno dei film più importanti del periodo storico.

Nei capitoli successivi – e meno riusciti – della serie troviamo Renzo Montagnani al posto di Duilio Del Prete. Nel primo film Montagnani è la voce fiorentina di Philippe Noiret nei panni del giornalista Perotti. Amici miei è il testamento della commedia all’italiana, una pellicola intelligente e trasgressiva, capace di descrivere con cura il senso di amarezza e insoddisfazione che pervade la vita. La pellicola è percorsa da una velata tristezza e la musica di Carlo Rustichelli sottolinea bene il tono malinconico del vagare senza meta di amici che non vorrebbero accettare il passare del tempo. Ugo Tognazzi (il conte Mascetti) è un conte spiantato che ha dilapidato due patrimoni, Philippe Noiret (il giornalista Perotti) un irresponsabile eterno bambino che si fa criticare dal figlio e ha mollato la moglie, Moschin (l’architetto Melandri) un innamorato della vita e delle donne che perde facilmente la testa, Duilio Del Prete (il Necchi, negli altri episodi sarà Montagnani) un barista trasgressivo che compie scherzi atroci e Adolfo Celi (il Sassaroli) un chirurgo che antepone il piacere della zingarata al dovere delle operazioni. Il chirurgo si unisce al gruppo al termine di una zingarata finita con un incidente, perché gli amici si ricoverano nel suo ospedale facendo impazzire monache e inservienti. Il Melandri si innamora della moglie del Sassaroli, deve prendersi in casa il pacchetto completo di cane e figlie, oltre a invitare a cena il sarcastico chirurgo che lo critica per il modesto tenore di vita. Gli amici si riuniscono e mollano le donne: “Come si sta bene tra noi uomini. Ma perché non siamo nati tutti finocchi?”, dice Tognazzi. Bernard Blier è molto bravo nei panni di un cliente tirchio che non paga le consumazioni al bar del Necchi. La zingarata ai suoi danni è un atroce scherzo che cita il cinema noir e il poliziesco all’italiana.

La tristezza aleggia sul film quando terminano le zingarate: “È come l’amore quando non c’è: inutile continuare. È stata una bella giornata, chissà quando ne capiterà un’altra…”. La morte di Noiret è un tocco di poesia comica, muore il personaggio che si comportava da ragazzino per non invecchiare, per esorcizzare l’incombente presenza della morte. “Levatevi dai coglioni, che devo morire”, mormora. Il giornalista prende in giro anche il prete al momento dell’estrema unzione e si fa beffe della morte con lo scherzo della supercazzora. “Ma è morto davvero?” si chiede un incredulo conte Mascetti. I quattro amici al funerale sono il degno finale di un grande film, quando si ritrovano a scherzare durante il trasporto della salma con l’inconsapevole Bernard Blier, proprio come avrebbe voluto il defunto. Il regista inquadra le loro espressioni che compongono un mix di commozione e divertimento. Alcune trovate linguistiche sono entrate nel parlare comune: zingarata, come se fosse antani, supercazzora…e resta indimenticabile la scena degli schiaffoni ai passeggeri di un treno alla stazione di Firenze. Aiuto regista è il giovane Carlo Vanzina. David di Donatello nel 1975. Mario Monicelli gira Amici miei – Atto II (1982), ma si rifiuta di girare Amici miei – Atto III (1985), che passa nelle mani del bravo Nanni Loy, perché ritiene ormai esaurito l’argomento. Pensare che nel 2011 Neri Parenti ha girato l’inutile prequel Amici miei – come tutto ebbe inizio.

Amici miei – Atto II (1982) cerca di bissare il successo del primo capitolo e ci riesce in termini di pubblico, ma la storia è più debole e le trovate sono meno originali. In ogni caso è una commedia velata di soffusa amarezza, come ogni vera commedia all’italiana, dove si ride ma pensando ai grandi problemi della vita e gli scherzi servono a esorcizzare la paura della morte. Monicelli dà il via alle danze citando l’inimitabile primo capitolo e la scena degli schiaffi alla stazione di Santa Maria Novella. Il giornalista (Noiret) è morto e i superstiti (Tognazzi, Montagnani, Moschin e Celi) si ritrovano sulla sua tomba a ricordare scherzi e zingarate. Il primo tragico scherzo è al cimitero dove il serioso medico Adolfo Celi fa disperare un vedovo inconsolabile (Alessandro Haber) facendogli credere di aver avuto una storia con sua moglie. Gli amici ricordano Noiret, la sua amante moglie del fornaio, i problemi con il figlio e la separazione dalla consorte, ma mettono in burla pure la tragica alluvione di Firenze (scene d’epoca). Memorabile lo scherzo ai cardinali con il coro dei finti madrigalisti che cantano “Mavaffanzum, oh bucaiola, tu mi tradisci” invece di un inno sacro. Non è da meno la zingarata alla Torre di Pisa pericolante con i turisti costretti a sorreggerla con ogni mezzo. Gli avventori del ristorante gestito da Renzo Montagnani e signora si vedono rubare le macchine fotografiche che servono a immortalare sederi e membri virili come foto ricordo. Molti gli scherzi memorabili. Gastone Moschin si converte per amore e viene preso a sassate dagli amici mentre recita la parte di Cristo durante la processione del venerdì santo. Non meno ilare la sequenza del battesimo che finisce con i tre amici ad affogare il compagno nel fonte battesimale. Milena Vukotic è la moglie di Tognazzi che vorrebbe suicidarsi ma il gas è finito. Altra amarezza quando la figlia handicappata partorisce un figlio e non si trova il padre. Un minimo di commedia sexy è costituito dal rapporto tra il conte Mascetti (Tognazzi) e una contorsionista che fa contrarre debiti al nobile decaduto con uno strozzino (Paolo Stoppa). Lo strozzino è oggetto di atroci scherzi di carattere medico, pure se è un osso duro e non molla sul denaro che deve avere. Il personaggio del conte Mascetti è intriso di grande umanità, vive di ricordi nobiliari ma è un povero spiantato. Alla fine è colto da ictus e finisce in sedia a rotelle, ma gli amici lo sostengono e non lo lasciano solo. Il film è amaro, l’ironia e il sarcasmo che lo pervadono sono spesso atroci e senza speranza. Monicelli pare voler affermare che la vita va presa alla leggera perché non è una cosa seria, l’amicizia e l’autoironia sono la sola cosa che conta. “Sono sempre stato inutile, questo è vero, ma prima ero libero!” esclama Tognazzi ridotto in sedia a rotelle dopo aver subito l’ictus. “I quattro poveri bischeri”, nonostante tutto, restano ancora uniti e gli amici tifano per lui che corre spingendo la carrozzina durante le olimpiadi dei paraplegici.

Amici miei – Atto III (1985) è l’ultimo prodotto di una saga di successo che Monicelli si rifiuta di girare perché ritiene ormai sfruttata ogni buona idea. Tocca a Nanni Loy il difficile compito di  non far rimpiangere due capolavori sfruttando una simile atmosfera melanconica presente nei primi episodi. La colonna sonora di Carlo Rustichelli funziona come uno struggente leitmotiv alle disavventure dei vecchi amici all’interno di un ospizio. Le zingarate presentano un sapore ancora più amaro perché l’età della morte si avvicina, le beffe sono spesso crudeli e cattive. Tra gli interpreti non possono mancare Ugo Tognazzi, Gastone Moschin, Adolfo Celi e Renzo Montagnani, che nelle prime sequenze vediamo cantare in auto la vecchia Mavaffanzum! mentre ricordano il tempo passato. Bernard Blier ricopre di nuovo il ruolo del gabbato, perché in ospizio viene coinvolto in una messa nera e convinto di possedere un potere demoniaco capace di farlo ringiovanire. Enzo Cannavale è molto bravo nella parte del servizievole napoletano che per una modica spesa si presta a qualsiasi prestazione manuale. La sceneggiatura non è il massimo, perché paragonata ai primi due capitoli la terza parte risulta più debole e deludente. In ogni caso si lascia seguire per una buona verve comica e per le interpretazioni senza sbavature dei protagonisti. Il conte Mascetti – rimasto vedovo della moglie – va in ospizio, ma i compagni lo raggiungono per dare il via a una serie irresistibile di scherzi. Alla fine il chirurgo Sassanelli compra la struttura dopo aver venduto la clinica e fissa nuove regole di vita che nessuno riesce a seguire. Da citare un nuovo tentativo di schiaffeggiare i passeggeri alla stazione di Firenze che finisce male, perché i quattro amici sono vecchi e non colpiscono i bersagli. Anzi, sono loro a finire malmenati. Tognazzi inventa un nuovo e più agile sistema: schizza con inchiostro nero i passeggeri affacciati al finestrino ricorrendo a una pompetta. Tra gli scherzi sono divertenti i primi momenti al Luna Park, la corsa sulla giostra, lo zucchero filato come ritorno all’infanzia e i vecchietti che si fingono spastici per distruggere lo stand del tiro a segno. Buoni momenti riflessivi e malinconici quando il Melandri in pensione non riesce a far passare il tempo, va a prendere il caffè dal Necchi prima dell’alba e recita poesie per realizzare la metafora del Mascetti in ospizio. “L’importante nella vita non è mica lavorare, ma ridere!”, è la morale del gruppo di amici che si ritrova per dare il via a nuove zingarate. In ospizio è notevole la gag di Tele Terza Età, un finto canale messo su dal quartetto con una sostituzione di cavi al televisore. Il regista esorcizza la morte con la pubblicità alle bare, ma cita pure la pochade e le comiche con le torte in faccia. Adolfo Celi è l’unico amico in piena attività erotica e ci presenta una serie di nipoti da parte di fava, nella gag più originale del film che ricicla un volgarissimo modo di dire toscano. La morte incombe sul film, come nei vecchi lavori di Monicelli e la vecchia idea di Germi non va sprecata: “La morte è discreta nelle case di riposo. Tutti la vedono, ma nessuno ne parla”. Molto bravo Nani Loy a rappresentare la morte come un materasso percosso da una finestra aperta: basta osservare la scena per capire che qualcuno se n’è andato. Altri scherzi spezzano il tono malinconico e sarcastico per conferire alla pellicola un andamento da farsa: le dentiere al tavolino e il brodo succhiato dai piatti sono due momenti da pochade. Moschin non può fare a meno di innamorarsi anche in ospizio ma ben presto si rende conto che la sua fiamma è una ex prostituta. Il conte Mascetti gli fa aprire gli occhi con lettere anonime e pure con una palpata di sedere alla fidanzata dell’amico. Divertenti anche un farsesco duello e lo scherzo della messa nera nei confronti di Blier che alla fine muore in una casa di appuntamenti per eccessi erotici. “Quale morte migliore? Se n’è andato sicuro d’essere immortale, tra le poppe di due sventolone. Magari accadesse anche a noi”, dice Tognazzi. Altre zingarate portano i nostri eroi a incasinare il traffico di Roma con i bambini che escono da scuola e al Polo Nord tra i ghiacci eterni. Per stomaci forti lo scherzo dell’insalata russa prima rigettata (per finta) e poi divorata dai quattro buontemponi. Il finale vede la rivolta dei vecchietti in ospizio, a base di scherzi e sabotaggi (il profumo nella minestra), che porta al cambio di gestione con il Sassaroli nuovo padrone permissivo. Non più monache e orari rigidi, ma belle nipoti da parte di fava e scherzi senza limiti. Perché l’importante è ridere, per esorcizzare la morte ed evitare di pensare a un nuovo materasso scosso da un battipanni alla finestra.

©Futuro Europa®

[NdR – L’autore dell’articolo ha un suo blog “La Cineteca di Caino”]

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