
Danimarca, detenuti stranieri verso il Kosovo
In un clima politico europeo segnato da crescenti tensioni sul tema dell’immigrazione e della giustizia penale, la Danimarca ha scelto una via inedita quanto controversa: trasferire fino a 300 detenuti stranieri in un carcere situato in Kosovo, nel villaggio di Pasjak, a circa 50 chilometri da Pristina. L’operazione, sostenuta da un investimento danese di 200 milioni di euro, rappresenta un passaggio senza precedenti nella gestione delle pene inflitte agli stranieri condannati all’espulsione. Negli ultimi anni, il sistema penitenziario danese ha mostrato segni di crisi: celle sovraffollate, carenza di personale e una gestione difficile dei detenuti stranieri destinati a lasciare il Paese una volta scontata la pena. Per rispondere a questa pressione, il governo di Copenaghen ha firmato nel 2022 un accordo con il Kosovo, ratificato dal parlamento kosovaro nel 2024, che prevede l’affitto di una struttura detentiva già esistente nel sud-est del Paese balcanico.
L’accordo, che entrerà pienamente in vigore entro il 2027, riguarda detenuti condannati per reati ordinari – esclusi terrorismo, crimini di guerra e casi clinicamente delicati – e punta alla loro detenzione in Kosovo fino al completamento della pena, seguita dal rimpatrio nel Paese d’origine. Il contributo danese, pari a 200 milioni di euro (circa 230 milioni di dollari), supera di gran lunga il bilancio annuale del Ministero della Giustizia del Kosovo, un fatto che dimostra la portata dell’intesa e il peso che questa rappresenta per Pristina. Il carcere di Pasjak, attualmente in fase di ristrutturazione, è destinato a diventare un polo di riferimento per la cooperazione penitenziaria tra un Paese UE e uno Stato non appartenente all’Unione. Il Kosovo assicura che i diritti fondamentali dei detenuti saranno rispettati e che la struttura sarà adeguata agli standard europei, ma restano molte perplessità sul reale rispetto di queste promesse.
L’accordo tra Danimarca e Kosovo ha suscitato un acceso dibattito in merito alla sua compatibilità con i diritti fondamentali dei detenuti. Le critiche sollevate da organizzazioni per i diritti umani, tra cui Amnesty International, si concentrano soprattutto sulle condizioni in cui i prigionieri verranno custoditi e sull’effettiva possibilità di garantire loro un trattamento equo. Nonostante le promesse di Pristina in merito al rispetto degli standard internazionali, le carceri kosovare hanno storicamente sofferto di criticità strutturali e funzionali, e resta forte il timore che i detenuti possano finire in un contesto meno tutelato rispetto a quello danese. Inoltre, la distanza geografica tra i due Paesi rischia di compromettere seriamente il diritto dei detenuti all’accesso alla giustizia: mantenere contatti con avvocati in Danimarca, familiari o rappresentanti consolari del proprio Paese d’origine potrebbe diventare estremamente difficile, ostacolando il percorso di difesa legale e di riabilitazione. Alcuni esperti legali hanno sollevato dubbi anche sulla legittimità dell’accordo stesso, paventando la possibilità che possa violare norme internazionali e aprire la strada a un precedente problematico: se altri Stati decidessero di seguire lo stesso approccio, si rischierebbe un generale disimpegno dalle responsabilità che ciascun governo ha nei confronti dei propri detenuti. Infine, emerge una questione di fondo legata alla sovranità giuridica e alla responsabilità politica: pur trovandosi fisicamente in un altro Stato, questi detenuti restano sotto la giurisdizione penale della Danimarca, che mantiene quindi l’obbligo di garantire loro tutele e diritti in ogni fase della detenzione.
Secondo il governo danese, si tratta di un modello sostenibile e replicabile, capace di alleggerire il sistema penitenziario nazionale e di fungere da deterrente all’immigrazione irregolare. “Chi non ha diritto all’asilo non deve rimanere in Danimarca”, ha dichiarato il ministro per l’Immigrazione, Kaare Dybvad Bek, sottolineando che questa politica mira a tutelare il sistema di welfare nazionale e a mantenere alta l’efficienza amministrativa. Tuttavia, la strategia rischia di alimentare una narrazione securitaria e punitiva, in un momento in cui cresce la tendenza in Europa a trattare migranti e richiedenti asilo come soggetti da isolare, anche quando non hanno commesso alcun crimine. In molte carceri europee, infatti, sono detenuti anche individui in attesa di una risposta sul proprio status, creando un pericoloso cortocircuito tra giustizia penale e gestione amministrativa dei flussi migratori.
L’Unione Europea, pur non opponendosi formalmente all’accordo, ha espresso preoccupazione e promette di monitorarne l’evoluzione. L’UNHCR ha invece messo in discussione la compatibilità dell’iniziativa con i principi umanitari e con gli standard delle Nazioni Unite. Bruxelles, consapevole che si tratta di un precedente potenzialmente imitabile, teme che l’esternalizzazione della detenzione diventi una pratica diffusa, in contrasto con i valori fondanti dell’Unione. Per il Kosovo, invece, si tratta di un’occasione per rafforzare la propria economia e ottenere maggiore visibilità internazionale, sebbene la scelta di “ospitare” detenuti stranieri in cambio di finanziamenti resti eticamente divisiva. Alcuni osservatori locali hanno criticato l’accordo come una forma di “mercificazione della pena”, temendo che il carcere di Pasjak possa trasformarsi in un limbo giuridico per persone già vulnerabili.
Il trasferimento dei detenuti danesi in Kosovo rappresenta un passaggio delicato e potenzialmente storico nella gestione della giustizia penale in Europa. È una scelta che, da un lato, cerca soluzioni a problemi reali come il sovraffollamento carcerario; dall’altro, solleva interrogativi profondi sul rispetto dei diritti umani, sul ruolo degli Stati nel garantire giustizia e sulla direzione etica delle politiche migratorie europee. I primi trasferimenti potrebbero avvenire già nei prossimi mesi. Intanto, il carcere di Pasjak è sotto i riflettori: simbolo di un esperimento ambizioso, banco di prova per il Kosovo, ma anche specchio delle tensioni di un’Europa che fatica a conciliare sicurezza e umanità. Le prossime fasi diranno se questo accordo diventerà un modello da replicare o un capitolo controverso destinato a far discutere ancora a lungo.
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