Intervista a Gargani, Presidente Popolari Italiani per l’Europa

[NdR – Pubblichiamo un’intervista all’europarlamentare Giuseppe Gargani, Presidente dell’Associazione Popolari Italiani per l’Europa, apparsa sul sito dell’Associazione PPIE]

«Tanti associati e simpatizzanti dell’Associazione popolari italiani per l’Europa ci chiedono un giudizio sulla situazione politica, in riferimento agli avvenimenti delle ultime settimane; chiedono in particolare un chiarimento di fondo, se possibile, un’opinione sull’iniziative prese nelle ultime settimane dall’UDC e da Scelta civica, e una precisazione sulle posizioni che assume e assumerà la stessa associazione.

Pubblichiamo sul sito dell’associazione (www.ppie.eu) una lunga intervista rilasciata dall’On. Giuseppe Gragani, presidente dell’Associazione PPIE, che fa il punto della situazione sulle questioni politiche attuali, dalle elezioni politiche del febbraio scorso fino alla sentenza della Cassazione nei confronti di Berlusconi, che non può non essere considerata un fatto importante con inevitabili conseguenze politiche. Si tratta di un bozza che ha il compito di sollecitare un approfondito dibattito e che ha bisogno soprattutto del contributo dei soci dell’associazione e del comitato costituente, in modo da poter presentare un documento unico e condiviso agli inizi di settembre, in una riunione fissata per l’11 settembre, di cui seguirà conferma.

Domanda: l’UDC ha convocato i suoi dirigenti, i deputati di Scelta civica si sono riuniti quasi in segreto, l’Associazione “Popolare Italiani per l’Europa” porta avanti le sue iniziative: c’è un coordinamento? c’è un’intesa?

Risposta: Credo che ci sia molta confusione su queste iniziative e sul metodo adottato: è necessario fare chiarezza, fare finalmente la cronaca precisa degli avvenimenti, e mettere un po’ di ordine. Faccio una premessa di fondo che può illuminare tutte le successive riflessioni. Le scelte politiche sono valide se legate ad una diagnosi puntuale del tempo che si vive.

Alla vigilia delle elezioni del febbraio scorso non era difficile capire che l’UDC avendo fatto negli ultimi anni tanti proclami contraddittori come quello di azzerare il vecchio partito, di dare inizio ad una esperienza diversa, di fare il terzo polo, di collegarsi con altri poli cattolici, per poi infine “riparare” nella lista Monti al Senato e fare una lista autonoma alla Camera dei Deputati (tutte cose utili ma contraddittorie), non avrebbe avuto consensi; come potevano gli elettori recepire un messaggio coerente e utile per una scelta?

D: Il risultato, dunque, era per Lei scontato?

R: Si, sentivo che non c’era feeling con il paese, e quindi era necessario, questo il mio pensiero, sin dalla vigilia elettorale proporre agli elettori una cosa nuova, una prospettiva diversa, un itinerario diverso.

D: E quale?

R: In Europa costituimmo a gennaio scorso un nuovo gruppo parlamentate all’interno del PPE , “Popolari per l’Europa”,  che superava il riferimento un po’ angusto ai partitini italiani, che recuperava anche altri deputati che erano vicini a Monti, come Albertini e Mauro, a cui si è aggiunto Oreste Rossi di Torino, e tutti non avrebbero mai aderito al gruppo parlamentare dell’UDC.

I dirigenti dell’UDC forse sottovalutarono o travisarono questa iniziativa e questo messaggio che avrebbe potuto costituire una novità e aprire nuovi orizzonti per un ceto dirigente che era in cerca di una politica, di un messaggio culturale nuovo e non solo personale, e poteva costituire un’ occasione politica anche per Monti per una scelta adeguata alla nuova realtà europea. Invece l’UDC restò inchiodata alla sua piccola organizzazione tutta chiusa nella sua autoreferenzialità e Monti non è riuscito né in campagna elettorale né dopo a spiegare il significato politico e culturale di “scelta civica”.

È per questo che io una settimana prima delle elezioni chiesi a Monti di dichiarare la sua adesione al popolarismo europeo che avrebbe consentito per lui probabilmente un voto più consistente, certamente più consapevole.

D: Non fu capito o non ebbe risposte: Monti preferì restare, come lui diceva, al di sopra delle parti.

R: Furono in tanti a lamentarsi prima e dopo le elezioni che in sede europea si era cancellato il riferimento all’UDC e al FLI senza prendere atto che alle elezioni era venuto meno non solo il consenso, ma era stata contestata una linea ondivaga, e equivoca, e non si pigliava atto di una verità: che l’Unione di Centro – non avendo assolto per lungo tempo al suo compito di  unire e al tempo stesso di allargare il centro, di fare, appunto, una forte unità di centro – non dava prospettive né alimentava speranze a chi per anni aveva sperato in una iniziativa centrista articolata e politica.

D: Dunque il partito non aveva mostrato di aprirsi alla nuova realtà.

R: Il centro è una prospettiva dinamica, se è fermo o immobile non aggrega non dà luce, non dà vita, resta schiacciato dagli opposti estremismi che restano ancor più relegati nel loro antagonismo e aumentano la loro divaricazione proprio per l’assenza di un centro.

Infatti sia la destra che la sinistra si attribuiscono velleitariamente ma ipocritamente il riferimento al centro per essere più credibili, pur essendo privi di un ancoraggio politico vero. La destra e la sinistra sanno che le loro formazioni politiche sono inadeguate alla realtà politica che non riescono a rappresentare nella loro complessità, essendo per sé limitata e settoriale sia la destra che la sinistra, e fittiziamente si costituiscono in centro destra e centro-sinistra.

D: Ma è il risultato del bipolarismo.

R: Assolutamente no: la dialettica bipolare non è tra destra e sinistra: negli altri paesi europei, dove i partiti superano lo schema sinistra destra per una rappresentanza più completa e compiuta della società.

D: Ma i partiti alle elezioni del febbraio scorso pretendevano di rappresentare centro destra e centro sinistra.

R: Io le dico che è stato molto difficile per gli elettori catalogare il PD unito a Sel di Vendola come partito di centro sinistra e aggiungo che il PdL, pur avendo caratteristiche di “centro”, è stato sempre individuato come espressione di una destra generica e approssimativa .

D: Ma parliamo dell’UDC.

R: L’UDC ha privilegiato la tattica che ormai è il patrimonio negativo di tutti i partiti ai quali manca purtroppo la strategia: quando i partiti sono personali prevale sempre la tattica. La strategia è propria di un gruppo dirigente che trova un leader (non un capo) capace di disegnare il nuovo non in astratto, ma in concreto.

Da lungo tempo, ma soprattutto nella campagna elettorale, tutti hanno giocato di rimessa, hanno fatto tattica o melina da Bersani a Berlusconi e tutti hanno appunto perduto perché, è mia convinzione, il partito personale è stato sconfitto e rifiutato: e questo è un dato molto positivo che viene fuori dalle elezioni.

D: E dunque che bisognava fare per avere alle elezioni un risultato diverso?

R: Era necessario collegare la politica nazionale a quella europea e spiegare come dovrebbe essere l’Europa per essere utile a sé stessa e agli Stati che la costituiscono. Il problema Europa era, in effetti, un incubo ed una speranza al tempo stesso, e bisognava affrontarlo e spiegarlo pur essendo le elezioni politiche soltanto nazionali.

Monti non ha scelto, l’UDC è risultata inconsistente non perché ha perduto consensi ma perché ha esaurito una sua funzione che invece era preziosa e anche strategica.

Posso dire con obiettività che i fondatori della nostra Associazione hanno intuito prima di tutti che bisognava caratterizzare il partito come soggetto attivo europeo ma siamo stati criticati per questo; oggi sono convinti che questa sia la strada maestra e questo per noi è un fatto importante.

D: In che modo?

R: Quando l’UDC ha difeso la sua autonomia nelle elezioni del 2008 non confondendosi con Berlusconi e ha avuto in Parlamento una consistente rappresentanza avrebbe dovuto aprirsi al nuovo e aggregare tanti che in quel periodo chiedevano un riferimento culturale e politico consistente.

Il partito, invece, proprio in quel periodo è diventato più personale degli altri e quando un partito piccolo si chiude in sé stesso, è ancor più legato definitivamente e strettamente alla persona che lo rappresenta ed è destinato a morire, non per demerito o per colpa della “persona” o delle “persone”, ma per assenza di collegialità e di articolazione democratica.

D: Ma l’UDC ha avuto un ruolo importante nella costituzione del governo Monti.

R: L’UDC ha contribuito alle dimissioni del governo Berlusconi e ha avuto un’occasione preziosa dopo la costituzione del Governo Monti. Se al governo Monti si fosse dato il significato che aveva e cioè di governo di emergenza ed eccezionale, bisognava non appiattirsi sulla sua linea di governo, ma approfittare della pausa governativa per rilanciare la  politica e da protagonisti.

Tutto questo non è stato fatto e abbiamo un problema: come uscire dall’angolo nel quale ci siamo ficcati da soli.

D: Dopo le elezioni politiche quali sono state le iniziative dell’Associazione?

R: Dopo le elezioni, comprendendo che il messaggio di un forte riferimento europeo è pur sempre elemento fondamentale di aggregazione politica abbiamo ridato vita ad un’Associazione culturale, che avevamo costituito negli anni passati e che aveva avuto un ruolo anche importante, per tentare di approfondire il nostro modo di essere e di qualificare culturalmente il partito, per archiviare il personalismo, consapevoli che l’individualismo è il nemico capitale di questa società come il comunismo lo era negli anni 50-60.

L’individualismo ha caratterizzato la natura di tutti i partiti da oltre 20 anni e l’autore vero di questa deviazione è Berlusconi che nel ‘94 vinse come persona, prima ancora che come movimento, perché lui rappresentava – ahimè! – il nuovo rispetto alla rovina dei partiti e a lui furono affidate tutte le speranze che erano riposte in qualche modo non solo sul suo movimento ma anche su tutti gli altri partiti. La conseguenza fu che l’on. Occhetto, capo del PDS nel 1994 subì la sconfitta del suo partito che faceva i primi passi dopo il comunismo e dette vita all’antiberlusconismo che ha fatto gli stessi danni e gli stessi errori eguali e contrari.

D: E’ stata, dunque, dimenticata l’Europa dove almeno questo personalismo non è cosi esasperato?

R: Il collegamento all’Europa è necessario per aggregare culture politiche che dovrebbero essere unificanti nei vari paesi: tutti capiscono, soprattutto i più giovani, che l’Europa è il nostro orizzonte ma tutti vorrebbero che ci fosse un obiettivo concreto non indeterminato e una funzione capace di coinvolgere le coscienze. I giovani sono più europei di noi ma sono esigenti, vorrebbero un Europa capace di competere con il resto del mondo.

Noi siamo convinti, e questo è il motivo principale che ci spinge a prendere iniziative che possono essere positive,  perché è vero che vi sono tante incertezze culturali e politiche, che il nostro tempo è caratterizzato da incertezza di modelli istituzionali e di modelli di sviluppo economico, manca un’idea guida, culturale, ma forse è forte la consapevolezza di come dovrebbe essere l’Europa e come essa deve caratterizzare la sua natura e la sua funzione.

D: Si spieghi meglio.

R: Nel 2005 ci si rese conto che per far crescere politicamente gli stati Uniti d’Europa era necessario un patto di stabilità e lo si collegò subito al patto per lo sviluppo: la “stabilità per la crescita” era lo slogan: e questa era la soluzione dei problemi. Fu una felice intuizione e un’idea guida formidabile. La stabilità per se stessa è un principio fondamentale ma come tutti i principi debbono essere funzionali ad una strategia. Se una azienda o una famiglia ha a cuore solo la stabilità o il pareggio di bilancio lo ottiene agevolmente ma fallisce e muore, se non produce investimenti e non fa nuove iniziative.

Il governo della Merkel, e soprattutto i governi dei paesi dell’Europa settentrionale hanno privilegiato solo la prima parte del programma e cioè il “patto di stabilità”, così ha fatto pure il governo Monti e la società è ferma a quel principio e soffre: la conseguenza è la recessione che in economia toglie vitalità, avvilisce e fa morire la società.

D: Ma vi è una ragione molto più complessa perché tutto questo è avvenuto.

R: Quando si è configurata quella strategia l’Europa era costituita da 15 paesi che si erano in qualche modo affiatati politicamente per un’Europa politica degli Stati Uniti, ma l’ingresso degli altri paesi, ben 12, ha reso più difficile e molto più lungo quel cammino. In mancanza di strategie politiche hanno prevalso la finanza, i mercati e la politica ha segnato il passo, è rimasta subordinata. Una Europa così non dà prospettive non è un orizzonte concreto per i giovani. Prodi riteneva ingenuamente che la moneta unica avrebbe costretto i paesi europei ad una unione politica e ha sbagliato clamorosamente. Non ha aveva studiato la lezione di De Gasperi che sin dal 1953 prevedeva lo sviluppo civile ed economico dell’Europa solo se fortemente unita sul piano culturale e politico.

D: Che bisogna fare?

R: Bisogna fare il contrario di quello che è stato fatto finora e un partito che vuole avere una dimensione europea deve disegnare una strategia politica per uno sviluppo possibile che si può attuare se ci affidiamo alla politica. La politica deve orientare l’economia.

Questo si propone di fare “l’Associazione Popolari Italiani per l’Europa” che ha portato avanti iniziative culturali per aggregare, per approfondire, per cercare un contenitore nel quale dovrebbero confluire le forze migliori che nell’UDC erano e sono costrette e costipate, del quale dovrebbe far parte quel mondo complesso ma vivo di ceti borghesi intellettuali che vogliono scrollarsi di dosso il berlusconismo e l’antiberlusconismo per una strategia più nobile e più impegnativa.

D: Quindi non più una tattica ma una vera strategia.

R: Qui va fatto un chiarimento di fondo: una parte della dirigenza nazionale dell’UDC non ha apprezzato le iniziative dell’Associazione, quasi fossero contrarie ad una linea politica che purtroppo non c’è e non può esserci. L’UDC ha riunito i suoi quadri dirigenti, qualche tempo fa, in un sabato assolato di luglio e ha indicato il superamento del partito per una “costituente per l’Europa” non meglio specificata a cui per ora non ha dato seguito; il giorno successivo, si sono riuniti alcuni deputati UDC insieme ad altri di “Lista civica” ognuno con il proposito non tanto nascosto di dividere – non aggregare – per discutere di Europa e di popolarismo.

D: Quindi i vostri comportamenti sono a compartimenti stagno.

R: Si dà il caso dunque che ogni piccolo gruppo si riunisce per conto suo anche se ognuno vuol raggiungere gli stessi risultati, ma senza la collegialità e il confronto che sono faticosi, come è faticosa la democrazia. Ognuno pensa: è cosi bello decidere da soli?! E poi magari sbaglia!

D: Quali sono state le conseguenze?

R: L’UDC sembra divisa e lacerata e Monti ha reagito in maniera violenta nei confronti dei deputati che hanno partecipato a quella riunione e ha “chiuso” il suo movimento senza fare le scelte di fondo che tutti gli chiediamo. Monti sa bene che sul piano europeo “scelta civica” non ha alcun significato, alcuna identità. In campagna elettorale la sua Presidenza del Consiglio ha caratterizzato il suo movimento con lo slogan “civica”, in un certo senso in polemica con i partiti, ma che risultava però provvisorio rispetto a scelte successive, che sono inevitabili e che tardano a venire.  La scelta tra popolarismo e polo liberale europeo, a nostro modo di vedere, non si pone perché Scelta civica può avere un ruolo ed una funzione nel Parlamento italiano e nel Parlamento europeo se fa riferimento, appunto, a quel modello europeo che Monti ha mutuato in accordo con i dirigenti del PPE. Ma diciamo ancora che in Italia il popolarismo ha la capacità di aggregare, per la sua attualità e per il suo pluralismo, larghi ceti popolari e ceti emergenti della società, non così nettamente il polo liberale, che non saprei meglio definire. In Italia certamente una scelta di questo tipo mi sembra anacronistica e la nuova presa di posizione di Montezemolo ci fa essere ottimisti per una ritrovata unità di intenti. Alla vigilia elettorale si auspicava il partito unito di Monti e il gruppo parlamentare di Monti: le varie componenti parlamentari risultano invece inconciliabili perché quando le “storie” sono diverse anche le coscienze sono diverse e ci si divide come si sono divisi UDC e Scelta Civica: è una legge di natura.

D: Come risolvere il problema?

R: Secondo me c’è un equivoco che va chiarito. Noi non dobbiamo organizzare il PPE in Italia come impropriamente e approssimativamente si dice: noi dobbiamo ricominciare da capo, rilanciare la nostra esperienza “popolare” che in Italia ha riferimenti più nobili e consistenti, per la presenza storica da Sturzo a De Gasperi, aggiornarlo all’oggi con le nuove ragioni, con le nuove esperienze del nuovo secolo e far sentire la nostra presenza italiana come fondamentale nel P.P.E., per indicare una Europa come la cultura “popolare” può fare ipotizzare.

Il PPE allo stato è inadeguato e fortemente burocratico e ha bisogno della sollecitazione italiana per assumere una funzione dinamica e politica. Una Europa politica e unita è l’unica che ci può far competere con il mondo.

D: Quindi il “popolarismo” italiano può essere determinate per una funzione diversa dell’Europa?

R: Il personalismo italiano ha offuscato la nostra nobile e rispettata tradizione di cattolici impegnati per una politica laica ma legata all’ispirazione cristiana. Questa cultura è la funzione che per lunghi anni i nostri padri hanno esercitato, hanno fatto progredire e maturare un federalismo europeo che avrebbe dovuto superare il vero rapporto tra i vari governi utile solo a trovare un punto di incontro secondo i propri interessi e non per un interesse complessivo: cioè l’interesse comunitario rispetto all’interesse intergovernativo.

Fare una politica adeguata per fa diventare l’Europa federale è il compito che abbiamo e che presuppone solidarietà e sussidiarietà.

Anche in questo caso l’individualismo ha spento la solidarietà che era un valore consolidato della politica della Democrazia Cristiana e oggi sia le persone che gli Stati pensano di fare le cose da soli.

E’ così radicato nella nostra coscienza il personalismo che la collegialità è considerata fastidiosa, non c’è più nel nostro DNA. La società è disgregata per questo, non è più una comunità di valori perché l’egoismo che pur è sempre presente nella natura umana, non viene superato mai in una visione più generale che fa trionfare il bene comune e che consente quasi sempre la soddisfazione delle esigenze anche dei singoli individui. Per questo l’Europa e’ un orizzonte, ma difficile da rendere concreto.

D: L’Associazione si propone dunque un compito arduo.

R: Vogliamo comportarci in maniera tradizionale come le esperienze dei lunghi anni della prima Repubblica suggeriscono. Pensiamo di aver riflettuto insieme a tanti colleghi su questi temi, sia per l’impegno europeo degli ultimi anni, sia perché chi non era personalmente impegnato come candidato alla campagna elettorale politica del febbraio scorso, e quindi fuori dal dovere di difendere una cosa che non aveva costrutto, si rendeva conto che soprattutto l’elettorato di protesta rifiutava i nostri deboli messaggi.

Lo facevo rilevare in quel periodo che era necessario dare nuovo respiro all’UDC collegandolo ad una visione meno provinciale, e penso di aver portato un contributo che se accettato poteva e potrebbe ancora oggi essere utile.

Penso che le persone non possono essere incisive e protagoniste fuori da strategie collettive e dalla collegialità: è una verità sacrosanta considerata da pochi e forse anche non redditizia sul piano personale! Ma fa parte del mio modo di essere.

Nel mio impegno personale per rafforzare il ruolo dei popolari in Italia mi sono state rivolte tante critiche forse da chi ritiene che le iniziative politiche possono essere di alcuni e non di altri. La polverizzazione delle iniziative dunque è la conseguenza di questo esasperato personalismo: c’è una confusione definitiva tra leadership e capo. Tradizionalmente vi erano pochi leader e tanti capi. Oggi i capi diventano automaticamente leader e disdegnano la collaborazione e la collegialità.

D: Questa è una sua personale valutazione politica.

R: Sono convinto che questa disgregazione è davvero la causa a monte di tutte le difficoltà nelle quali ci troviamo. Se vogliamo trarre insegnamento dal risultato elettorale nazionale e soprattutto dal fatto, ormai verificato anche alle elezioni amministrative, che una rilevante parte degli elettori non partecipa al voto come una costante delle ultime votazioni e dalla conseguente crisi che ne deriva della “rappresentanza” dobbiamo ripristinare una solidarietà e una collegialità che erano caratteristiche di altri tempi ma che sono valori imprescindibili e indispensabili per fare le cose insieme; le divisioni quasi sempre si alimentano senza neanche sapere il perché e disgregano il tessuto politico.

D: Come vi preparate alle elezioni europee?

R: Le elezioni europee che si terranno il prossimo anno non sono una occasione per presentare le liste ma per mettere insieme programmi culturali e proposte politiche e per spiegare l’Europa, la nuova Europa che vogliamo.

In tutti i paesi europei la politica è riconoscibile in un riferimento consolidato nella cultura e nella coscienza. Oltre il popolarismo dei democratici cristiani o dei cristiani democratici, oltre il socialismo democratico, oltre l’ambientalismo, oltre la cultura liberale non c’è riferimento personale che possa qualificare di per sé un partito, perché non c’è storia personale che possa di per sé qualificare un orientamento, una ideologia, una politica.

Quindi l’invito a mettere insieme tutti quelli che attraverso un approfondimento e un aggiornamento del popolarismo vogliono dare un contributo per  caratterizzare il movimento europeo che è rappresentato dal Partito Popolare Europeo e nel Parlamento dal gruppo P.P.E.

Mi risulta che anche i dirigenti dei PSE fanno pressione sui dirigenti italiani del PD per ottenere una unità dei socialisti che abbiano il coraggio di chiamarsi socialisti e non di rincorrere formule come quelle appunto di un non meglio definito partito democratico che non esprime una identità e una politica. Il PD ha rinunziato a chiamarsi socialista per l’illusione di far stare insieme culture diverse come quella cattolica e socialista. L’ipotesi non si è mai concretizzata come le vicende degli ultimi anni hanno dimostrato. Si è portata avanti una posizione ibrida, equivoca meramente organizzativa.

Se le elezioni europee possono essere l’occasione per ricomporre queste culture che hanno comuni origini avremo fatto un’opera di chiarificazione e di semplificazione molto importante.

Al Presidente del Consiglio Enrico Letta ho detto, dopo la formazione del suo governo, che se il PD attraverso un vero chiarimento interno si fosse diviso nei filoni tradizionali recuperando le diverse culture di riferimento, il suo governo sarebbe durato a lungo. Letta e Bersani sono cose diverse che non possono stare insieme e dopo 10 anni di inutili tentativi perché non prendere atto che la fusione della vecchia Margherita e dei post comunisti non è avvenuta e non poteva avvenire. Questa giustapposizione crea danno al paese.

Se ci fosse su tutti questi fronti un chiarimento vero non avremmo bisogno di discutere di bipolarismo o di altre formule astratte.

Avremmo la presenza di forze politiche, di partiti che hanno una loro consistenza e si misurano, si confrontano per quello che sono e per le diversità che hanno.

Il governo delle larghe intese in quel caso sarebbe utile e decisivo per il paese perché servirebbe a gestire davvero l’emergenza e a risolvere i problemi dell’assetto istituzionale che come all’epoca della costituente apparteneva a tutti e non ad una parte politica è a far prevalere l’identità delle forze politiche che partecipano.

D: Il Governo indica e propone le riforme da fare. E il Parlamento che fa?

R: Se si affida al governo la proposta di riforma istituzionale vuol dire che siamo fuori da ogni parametro e da ogni strategia; tutti i cittadini nessuno escluso è consapevole che è indispensabile, per fare un solo esempio, la riforma della giustizia che il Pd ritiene non possa essere inserita nelle materie che i saggi dovrebbero mettere in agenda perché l’antiberlusconismo non consente che si tocchi la “giustizia” che è materia cara e utile al berlusconismo e quindi da mettere da parte. Roba da pazzi!

D: Bisogna dunque superare questa divisione pericolosa.

R: Tanto pericolosa da mettere in pericolo la democrazia. Come non accorgersi che questa pregiudiziale berlusconiana avvilisce la società, le istituzioni, la politica. Chi si libererà del berlusconismo e dell’antiberlusconismo sarà il protagonista dei prossimi anni.

Allora i popolari italiani dovrebbero avere un colpo d’ala e organizzarsi per difendere i valori non le persone.

Ai tempi della “Prima repubblica” il partito di maggioranza relativa formava il governo ma portava avanti una sua attività culturale e politica.

I popolari italiani se si uniscono debbono sostenere il governo Letta ma avere tanta autonomia da difendere principi e valori che possono salvare il nostro paese e il nostro sistema democratico.

In conclusione un partito che si vuol chiamare “popolare” deve rifondare una politica legata alle grandi questioni che questo tempo pone. Siamo ad un passaggio epocale che non riguarda solo il nostro Paese né la sola Europa. Non dobbiamo aver paura delle riforme e dobbiamo concentrare la nostra attività su alcune questioni che a mio avviso sono prioritarie rispetto a tutte le altre.

D: Vediamo quali.

R: È arrivato il momento di interrogarsi sulle scelte fondamentali che i Costituenti fecero nel 1948 e stabilire che tipo di Repubblica deve essere, oggi, quella italiana: una Repubblica parlamentare , come appunto previsto dalla Costituzione  o una  di tipo presidenziale che tanti sembrano preferire; che ruolo e che funzioni debbono avere i partiti per essere necessari alla democrazia; ma soprattutto che tipo di strategia politica è necessaria per risolvere i problemi della democrazia, della convivenza civile, dell’economia e del lavoro; che rinnovamento deve esserci della classe dirigente che realisticamente non può avvenire con la sostituzione pura e semplice di persone.

La modifica della legge elettorale è la conseguenza di queste scelte perché è la conseguenza dell’architettura istituzionale, non è la premessa.

Senza disegnare il nuovo modello ordinamentale non si può modificare la legge elettorale. Ma modificare la legge elettorale non basta. Dobbiamo ridisegnare lo Stato e i suoi meccanismi per renderlo adeguato alle sfide di questa epoca. È ormai evidente che la competizione globale è sempre più una competizione tra sistemi paese. Se non vogliamo iscriverci alla gara al ribasso di quelli che si offrono per gli stipendi più bassi, dobbiamo allora essere capaci di fare meglio degli altri in tutto il resto: avere le persone migliori, produrre prodotti migliori, generare più innovazione. E, per fare questo, darci anche uno Stato migliore.

Chi ci delega con il voto ci chiede un’unica cosa: la capacità di amministrare gli interessi comuni, non il consenso. Amministrare non è facile: occorre competenza, dedizione ed esperienza. Non basta impegnarsi nelle intenzioni, occorre responsabilizzarsi sui risultati, darsi un’etica della responsabilità. Chi riveste un ruolo politico ha più responsabilità degli altri verso la collettività e deve comportarsi di conseguenza.

È difficile giudicare il presente con gli occhi del futuro.  Ma questo momento politico, molto probabilmente sarà ricordato come un momento di svolta: quando si è fatto quel che si doveva fare o l’ultima occasione persa per farlo. Questa è la nostra vera occasione per riscattarci dall’antipolitica e servire la nostra comunità come è nostro dovere.

L’Associazione “Popolari Italiani per l’Europa” porta avanti questa strategia, vuol essere lungimirante, consapevole che aver immaginato, come si è fatto finora, di propagandare un rinnovamento con riferimenti generici e aver ripudiato il riferimento ad una struttura di partito democratico e collegiale, ha fatto considerare negativo qualunque riferimento alla politica e non ha realizzato alcun cambiamento. È quindi doveroso dire la verità al Paese e ricominciare. Una montagna di luoghi comuni in tutto questo lungo periodo ha esaltato il personalismo come espressione di rinnovamento e ha lacerato quel tessuto connettivo che aveva fatto realizzare in Italia un blocco sociale interclassista, garanzia di pace sociale e di serena convivenza civile, come è avvenuto per tanti anni.

D: L’altra questione importante.

R: Di Europa abbiamo già parlato, ma voglio riportare alcune frasi del Prof. Savona che sono illuminanti. Savona pone il problema urgente di un nuovo trattato europeo che inglobi equilibrandoli sia i valori sociali, che sono valori democratici, sia i valori materiali.

“In questo momento non è la politica determinata dall’economia ma l’economia che sta determinando l’economia e questo è l’errore più grave da correggere”.

“Ritengo” continua Savona, “che il problema più urgente sia quello di avere un nuovo trattato europeo, che inglobi, equilibrandoli, sia i valori sociali, che sono valori democratici, sia i valori morali. Credo che il sistema abbia funzionato bene finché abbiamo avuto un’ottica da mercato comune, e la Comunità Economica Europea ha dato vantaggi indubbi all’Italia. La verità è che la politica è tale che la gabbia che abbiamo creato istituzionale è talmente stretta che porta inevitabilmente il nostro Paese ad un degrado”.

La conclusione è che le istituzioni non possono essere chiuse in una gabbia burocratica ed asfittica ma debbono poter essere solide e dinamiche. L’Europa di De Gasperi e di Adenauer! Il modello c’è, è maturato nel diritto comunitario e nelle coscienze: deve essere solo applicato e gli operatori debbono essere i Popolari per l’Europa.

D: Passiamo all’altra riforma da lei indicata.

R: La riforma della giustizia è fondamentale per ritrovare un equilibrio tra i poteri. La giustizia e le regole che la ispirano sono profondamente mutate. La verità è che negli anni ’90 l’evoluzione della giurisprudenza e la incipiente crisi politica aveva potenziato e reso più determinante il ruolo del giudice rispetto a quello della giurisdizione. In quel periodo l’avversione dell’opinione pubblica nei confronti dei partiti ritenuti responsabili di tutto e il condizionamento del PCI nei confronti di tanti magistrati allevati alla scuola delle Frattocchie avevano consentito che un supereroe, non proprio un giurista di classe, pubblico ministero a Milano, mettesse in atto un metodo istruttorio sommario e approssimativo che tanti lutti ha determinato. Le valutazioni che più volte abbiamo fatto in questi anni restano valide. Il procuratore di Milano Borrelli, ai tempi di tangentopoli, si attribuiva il compito di eliminare la corruzione colpendo qui e là indiscriminatamente attraverso la carcerazione preventiva: la corruzione naturalmente continua, i giudici hanno poi assolto il 72% degli indagati dalle procure italiane, ed è stato invece compromesso il processo, “il giusto processo”.

Questi comportamenti giudiziari anche se per fortuna pur sempre limitati hanno fatto venir meno la cultura della prova, che non si può ricercare attraverso la paura del carcere, ma con un lavoro di ricerca e di indagine che presuppone la grande professionalità del magistrato. L’avere smarrito o contraddetto la cultura della prova ha portato a una criminalizzazione generalizzata di tutto e di tutti, che condanna il sistema nel suo complesso ma non fa evidenziare le responsabilità dei singoli. È stato questo il tragico errore che ha compromesso la credibilità del processo. Se i pubblici ministeri  non avessero fatto e facessero i processi al “sistema”, alla politica ma ai singoli, avremmo una giustizia all’altezza del compito in una società complessa come la nostra, avremmo avuto un’iniziativa giudiziaria capace di colpire non la corruzione, e la politica non sarebbe stata genericamente vilipesa e condannata. Ne sarebbe derivata una grande operazione di giustizia e non una finta rivoluzione!

Naturalmente la storia si ripete con i processi a cui assistiamo ora: la sinistra insiste perché non riesce a vincere politicamente, ma non sa che nessuno ha mai vinto con il giudiziario e con le sentenze!

Il ragionare in questi termini fornisce gli strumenti per capire quanto abbia inciso sull’equilibrio democratico la carenza del nostro dettato costituzionale. Questo ruolo determinante della giurisdizione, pervasivo e politico, non trova nel nostro sistema nessun contrappeso istituzionale. Nel 1948 era giustificabile e adeguato il ruolo di una magistratura come “ordine autonomo ed indipendente”, ma si trattava di uno schema troppo elementare per poter valere lungo gli anni. Infatti non è valso. Questo soprattutto perché la magistratura, man mano che la sua funzione assumeva rilevanza crescente nella pratica della giurisdizione, utilizzava quella prerogativa per trasformarsi in un soggetto diverso nell’ordinamento: un “potere”. Il ruolo istituzionale della magistratura è risultato inadeguato; la conseguenza è stata drammatica: la legge ha perduto la sua certezza e la magistratura stessa ha assunto una forte caratura ideologica.

Berlusconi oggi chiede di nuovo e con forza la riforma della giustizia e della magistratura senza avere una idea di quale riforma e per quale fine.

Certamente non possiamo non tenere conto del fatto che, quando ha ottenuto rilevanti maggioranze nel Parlamento, Berlusconi si è esercitato a proporre leggi forse anche giuste se inserite in una strategia complessiva ma certamente “personali”. Doveva fare riforme nell’interesse della magistratura e non contro, e disciplinare adeguatamente il nuovo ruolo del giudice responsabile, come è stato fatto in altri paesi europei.

D: Quali modifiche sarebbero opportune?

R: Sarebbe lungo fare un elenco: personalmente ho presentato tante proposte di legge che costituiscono un programma in verità riconosciuto valido da tanti. È opportuno fare un solo esempio, in verità, emblematico. Alcune norme del codice penale che non chiamiamo più “nuovo”, essendo trascorsi molti anni, attribuiscono al pubblico ministero la facoltà di “ricercare” il reato, non di limitarsi a ricevere la notizia di reato e di dare inizio ad una regolare  istruttoria, com’è giusto che sia soprattutto in un sistema di obbligatorietà dell’azione penale.

Se una parte, quella che “accusa” ha un potere dilatato e preminente, l’altra che “difende” è nuda e debole. Se Berlusconi si fosse posto questo e altri (pochi) fondamentali problemi avrebbe trovato sì ostacoli ma avrebbe avuto il consenso della stragrande maggioranza silenziosa dei magistrati.

Ora, se l’epilogo del primo processo a Berlusconi consente, come sollecita  anche il Capo dello Stato, che fuori dalla rivalità tra berlusconiani e antiberlusconiani si possa procedere a modifiche profonde del sistema processuale e soprattutto dell’ordinamento giudiziario sarebbe certamente cosa difficile ma saggia, e davvero potremmo ritrovare un equilibrio tra i poteri e quindi una pacificazione civile.

Ma non posso non ribadire, come ho fatto tante volte, che la rottura vera dell’equilibrio istituzionale, seppure era sentita negli anni precedenti, avvenne nel lontano 1993, quando il Parlamento si spogliò delle sue prerogative e annullò il suo prestigio istituzionale modificando l’art. 68 della Costituzione che prevedeva il giudizio del Parlamento per il prosieguo di una qualunque azione giudiziaria. Fu un voto irresponsabile (il mio naturalmente fu contrario) ed il Parlamento adottò in quel periodo, per una sorta di auto flagellazione – che ha alterato il compromesso dei rapporti tra gli organi costituzionali – e la magistratura ha assunto di fatto un ruolo sostitutivo che non può che essere etico o morale, ma non giuridicamente rigoroso. Oggi ci accorgiamo ancor più di questa disfunzione e di questo equivoco.

D: Ma chi crede nella possibilità, se pur tardiva, di aggredire questi delicatissimi problemi.

R: Approfitto di questa domanda per dire che pur avendo avversato i referendum in passato, perché ritengo che sia compito del legislatore fare le leggi, firmerò i referendum che i radicali ci propongono ancora una volta in materia di giustizia e penso che questa volta essi possano essere sollecitatori concreti. La riforma della giustizia non è prerogativa del PdL, anche perché, come ho già detto, se Berlusconi avesse avuto volontà di avviare in materia modifiche adeguate, avrebbe avuto possibilità concrete. Bisogna cioè superare il massimalismo della sinistra e le ostinazioni a volte irrazionali della destra, per offrire proprio noi, come associazione “Popolare” una proposta moderata e convincente: il ruolo del centro è proprio questo.

D: E come potete affrontare le elezioni europee in questa situazione? Ci imbattiamo puntualmente con i problemi degli ultimi giorni: la sentenza di condanna dell’onorevole Berlusconi.

R: Ho già detto che è stata una ipocrisia grave quella di escludere il tema della riforma della giustizia delle riforme da programmare perché è il settore che ha bisogno di una rivoluzione non di una semplice riforma. Oggi si interpreta la dichiarazione del Capo dello Stato come una possibilità di occuparsi di questo problema dopo la “sentenza”. Se fosse questa l’interpretazione ci troveremmo implicitamente in una valutazione negativa della stessa sentenza contro Berlusconi: siccome è stata fatta giustizia, possiamo occuparci dei magistrati!?! C’è una verità che non può essere contestata, che le sentenze non sono più credibili: la gente non crede più alla giustizia e l’accanimento giudiziario nei confronti di Berlusconi ha alimentato questo scetticismo. Non capisco come i magistrati, la loro associazione, non si pongano questo problema e non siano preoccupati. Non che debba essere il popolo a confermare il verdetto dei giudici ma la fiducia risposta nei giudici dovrebbe essere totale anche, in presenza di critica di questo o quel provvedimento. Il ruolo neutro della magistratura indicato dalla Costituzione prevede questo e da questo dovrebbe discendere fiducia e riconoscimento. Ma non c’è né l’uno né l’altro perché nessuno in Italia ritiene che quel ruolo sia neutro. L’intervista al Mattino del Presidente della Cassazione che ha condannato Berlusconi si spiega facilmente al di là di tutte le domande retoriche perché ormai il magistrato ritiene anche inconsapevolmente di essere al di sopra di tutto. Chi non risponde delle proprie decisioni in nessuna maniera finisce per assumere questa mentalità.

D: Dopo questa lunga analisi quale è la sua proposta conclusiva; dia una ricetta per superare questa situazione che sembra senza vie di uscita.

R: In verità credo di aver indicato iniziative e ricette più specifiche e un metodo da seguire perché vi sono vie di uscita, anche se complicate.

L’obiettivo è di ricostruire il rapporto di fiducia con la società, con i cittadini, e adottare un metodo collegiale perché nessuno può accettare che sia un capo a decidere. Quello che chiamiamo nuova cultura ha personalizzato tutto ma al tempo stesso ha demolito tutte le figure che hanno usurpato e usurpano la notorietà. Prima della fine dell’anno né Grillo, che protesta ma non propone, né Renzi, che propone rinnovamento senza dire quale e come, saranno più considerati dai cittadini rinnovatori credibili. È una mia personale profezia.

Se i Popolari si uniscono, come vorrebbero gli elettori, e perseguono  una politica autonoma tale da caratterizzare il centro sempre agognato e auspicato dai cittadini e mai realizzato daranno una indicazione preziosa e utile ai cittadini. Si ritiene il centrismo o il terzismo sacrificati o compromessi tra i due poli più consistenti. Se i poli fossero omogenei probabilmente ci troveremmo di fronte ad una situazione “normale” di partiti con identità precisa. Ma questi poli non possono avere identità come credo di avere ampiamente spiegato, e quindi il nostro compito, al di là dello schema bipolare, è quello di recuperare tutto lo spazio politico davvero omogeneo e costringere la Sinistra a caratterizzarsi come tale e la Destra (se c’è) a fare altrettanto. Il governo deve garantire l’emergenza e attraverso l’Europa dar forza alla nostra istituzione e alla  nostra economia.

Il Parlamento, e non il Governo, deve dare una risposta corale alle modifiche istituzionali e quindi ad una modifica coerente della legge elettorale. Il nostro sistema rischia di non essere un sistema elettorale democratico se alteriamo nei fatti le norme della Costituzione senza idee precise sulle modifiche. I popolari debbono portare avanti la loro autonomia politica e organizzativa senza sotterfugi sul piano nazionale come sul piano regionale e locale.

In conclusione dobbiamo senza equivoci recuperare fino in fondo la nostra identità perché dopo anni di infingimenti ognuno vuole sapere da un politico da dove viene e dove va.»

© Futuro Europa

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