Cronache dai Palazzi

La pressione di Palazzo Chigi sul Parlamento affinché approvi presto le riforme istituzionali ha una sua ragione d’essere: ottenere maggiore credito anche in Europa. L’obiettivo di fondo è presentarsi di fronte all’Ue con un pacchetto di provvedimenti concreti in mano e di celere attuazione. Prima fra tutte, la riforma del Senato che ha ottenuto un primo ‘via libera’ e che la prossima settimana approderà in Aula. Lunedì si continuerà con la discussione generale, martedì alle 13 scadrà il termine per presentare gli emendamenti, da mercoledì inizieranno le prime votazioni e giovedì con il voto finale si concluderà la prima tappa del lungo iter di modifica della Carta.

Il nodo che riguarda la composizione di Palazzo Madama resta ancora da sciogliere. Per ora i relatori della Commissione Affari costituzionali hanno raggiunto il seguente compromesso con il governo: i senatori (100, tra cui 5 di nomina presidenziale) non sono elettivi ma scelti dai Consigli regionali. Le Regioni piccole avranno 2 senatori mentre gli altri seggi saranno spalmati in base alla popolazione. Nell’assegnazione dei posti ai partiti si terrà conto anche della composizione politica dei Consigli regionali, con il beneplacito di FI e Lega. Il sodalizio Renzi-Berlusconi tiene e i forzisti, nella veste del capogruppo Paolo Romani, ci tengono a sottolineare di “stare ai patti”. L’ira di Beppe Grillo, che torna ad insultare, rimarca la tenuta del patto del Nazareno, definito dall’ex comico “un salvacondotto” per l’ex Cavaliere.

I grillini, tra l’altro, la prossima settimana dovrebbero incontrare i democratici di Renzi per discutere (di nuovo) di Senato e legge elettorale, e all’interno del movimento si discute animatamente per decidere chi rappresenterà il M5S in quella sede. Di Maio, fino ad ora considerato un valevole braccio diplomatico sulla strada delle riforme, è ora accusato di sovraesposizione.

La strada del disegno di legge costituzionale Renzi-Boschi è comunque segnata. Secondo la presidente della Commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama, Anna Finocchiaro, il testo verrà approvato al Senato “certamente prima della pausa estiva, presumibilmente la prossima settimana”. In Commissione hanno votato contro la riforma M5S, Sel e il senatore di FI, Augusto Minzolini, che non ha partecipato al voto finale. Intanto, i Popolari per l’italia, nel corso di una Conferenza Stampa dei senatori Mario Mauro e Tito Di Maggio, sostengono che “le riforme con questo metodo sono un attentato alla Costituzione”.

Il ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi si è dichiarata “molto soddisfatta” e ha assicurato che si è lavorato “per rendere il testo aderente anche alle critiche e alle obiezioni per rappresentare al meglio la pluralità delle espressioni politiche di ogni territorio”. Paolo Romani, capogruppo FI al Senato, ha invece ribadito che “i criteri chiesti e ottenuti con l’accordo raggiunto prevedono che l’assegnazione dei seggi sarà rigidamente proporzionale, in ragione dei voti espressi e della composizione di ciascun Consiglio regionale”. Secondo Lega e Ncd il legame con la composizione dei Consigli renderebbe troppo rigido il criterio di assegnazione dei seggi e, non a caso, la nuova versione della riforma concederà un margine più ampio alla legge elettorale ordinaria, che verrà approvata successivamente.

Secondo Matteo Renzi il prossimo step è per l’appunto l’approvazione della nuova legge elettorale, anche se la strada verso l’Italicum si presenta alquanto insidiosa e ricca di ostacoli. Il punto cruciale sarà incrociare la riforma del Senato con la nuova legge elettorale.

Il premier è comunque sicuro di portare a casa anche la seconda riforma fondamentale per il Paese. La maggior parte delle modifiche al testo è già stata concordata con i forzisti e alla fine – secondo Renzi e i renziani – l’intero Pd e gli alleati approveranno. La partita si preannuncia però piuttosto lunga non tanto per gli ostacoli apportati dai grillini, che secondo il  premier sono “divisi”, preda di “una grande confusione” che impedisce a Di Maio “di portare tutti con sé”. Il motivo del rallentamento potrebbe essere un altro: la paura che una volta approvata la nuova legge elettorale si vada alle urne in primavera, magari accanto alle elezioni regionali. Per il momento, nella direzione del Pd convocata per il 24 luglio si deciderà della “segreteria unitaria” e si vedrà chi intende contrariare una linea “discussa in riunioni su riunioni e assemblee su assemblee”, ha ammonito il leader dei democratici.

In definitiva i punti cardine del ddl Renzi-Boschi, ora al vaglio del Parlamento, sono i seguenti: la non eleggibilità dei senatori da parte dei cittadini, bensì l’elezione da parte dei Consigli regionali con sistema proporzionale; il ridimensionamento della platea dei grandi elettori del Capo dello Stato (che passano da 1.003 a 730); l’innalzamento della soglia firme (da 500 a 800) per il referendum abrogativo. Occorre inoltre non sottovalutare il tema delle Province, che si annida nei meandri del Titolo V (Federalismo). Il testo del nuovo articolo 117 prevede una divisione delle competenze per alcune materie (Ambiente, Beni culturali, Turismo) non esclusive tra Stato e Regioni. Secondo Gaetano Quagliariello (Ncd) si rischia di far “rientrare dalla finestra  le materie concorrenti cacciate dalla porta”. Il nuovo testo  alimenterebbe il conflitto tra Stato e Regioni ed inoltre senza la collocazione in Costituzione delle cosiddette “aree vaste” (ossia le vecchie Province) la legge Delrio, già approvata dal Parlamento, non avrebbe facile applicazione.

La situazione legata alle riforme, di vario genere (costituzionali, istituzionali, strutturali), è in conclusione appesa ad un filo: la strada è spianata ma non è un rettilineo. Dalle istituzioni europee arriva infine un ennesimo monito e il presidente della Bce, l’italiano Mario Draghi, esorta l’Italia a fare le riforme strutturali che rappresentano una priorità al pari del risanamento dei bilanci. Nello stesso tempo, però, “è fondamentale applicare le regole” di disciplina di bilancio con il Fiscal compact. Il messaggio che arriva da Francoforte è molto chiaro: da un lato serve una governance delle riforme per rilanciare la crescita, tantoché Mario Draghi suggerisce di affidare all’Unione europea “una qualche forma di governance comune delle riforme strutturali”, un progetto “che avrebbe un forte motivo d’essere”. Dall’altro non è possibile deviare dalla strada del consolidamento dei conti, per mettere al riparo l’Eurozona dai rischi di debiti incontrollabili.

“L’esperienza storica, per esempio – spiega Draghi – quella del Fmi, fornisce argomentazioni convincenti che la disciplina imposta da autorità sovranazionali può facilitare il dibattito sulle riforme a livello nazionale”. In definitiva le riforme devono essere fatte e non solo annunciate. In questo contesto una governance europea potrebbe misurare gli stati di avanzamento dei singoli Stati membri, premiando chi fa passi in avanti e istituendo una sorta di flessibilità progressiva.

Nel frattempo, il presidente in pectore della Commissione Ue, Jean Claude Juncker, continua a dimostrare la sua forma di ‘allergia’ al debito pubblico e afferma che “l’austerità è incontestabile”. Juncker propone un applicazione con “buon senso” del Patto di stabilità, annunciando “una lista di note applicative ragionevoli”. Spazzando via gli equivoci, il presidente del gruppo dei Popolari al Parlamento europeo, Manfred Weber, chiarisce invece la posizione di tutto il gruppo Ppe. “Non vogliamo ‘sconti’ politici nell’attuazione del Patto di stabilità e crescita – afferma Weber – ma il rispetto delle regole”. In sostanza “la politica dei debiti deve finire”.  La “linea rossa del Ppe” – ammonisce Weber – è che “le riforme si facciano e si smetta di discutere di come fare i debiti”; il presidente Renzi avrà il “sostegno dei Popolari” se procederà il suo cammino verso “la svolta”.

L’aggiornamento della cosiddetta “clausola per gli investimenti” sulla base del nuovo ciclo economico europeo – aggiornamento previsto per novembre, secondo Juncker – permetterà infine di scorporare dal deficit una parte consistente della spesa per infrastrutture introducendo margini più ampi a proposito di flessibilità.

©Futuro Europa®

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