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Camera di Consiglio

IL REATO DI SOTTRAZIONE DI MINORE – Il caso in esame trae origine da un ricorso per Cassazione esperito da una madre a seguito della parziale riforma della sentenza di primo grado da parte della Corte d’appello. La donna veniva ritenuta responsabile del reato di sottrazione di minore ex art. 574 c.p., per avere, in violazione dell’affidamento congiunto disposto dal Tribunale, sottratto la figlia minore al padre conducendola in altra città ove aveva stabilito il nuovo domicilio della minore in assenza di un provvedimento autorizzativo del Giudice. In secondo grado le venivano riconosciute soltanto le circostanze attenuanti generiche.

La donna ricorreva per Cassazione lamentando vizi di motivazione con riferimento alla ritenuta configurabilità degli elementi costitutivi del reato, sostenendo la mancanza del dolo di sottrazione, rappresentando di non avere mai impedito i contatti della figlia con il padre, che a suo dire avrebbe potuto esercitare il proprio diritto di visita e che le risultanze anagrafiche, secondo cui la minore era ancora residente nel primo Comune di residenza della madre, dovevano ritenersi irrilevanti rispetto in considerazione del loro mancato tempestivo aggiornamento.

La Suprema Corte riteneva il ricorso inammissibile: invero, la sentenza emessa dal Tribunale civile aveva precisato che per ogni spostamento della minore fuori del primo comune di residenza avrebbe dovuto essere preventivamente comunicata all’altro genitore. Inoltre, i Servizi Sociali incaricati dal Tribunale per vigilare sulla situazione familiare, nulla hanno potuto fare, atteso il trasferimento di madre e figlia. Sostanzialmente, il trasferimento della minore dal luogo della sua abituale dimora era avvenuto contro la volontà del padre, non coinvolto nella decisione assunta dalla madre che di fatto gli aveva impedito l’esercizio della propria responsabilità genitoriale.

Secondo la Corte, inoltre, l’elemento soggettivo del reato doveva ritenersi integrato dal dolo generico, ovvero “dalla coscienza e volontà di sottrarre il minore all’altro genitore esercente la potestà genitoriale e di trattenerlo presso di sé contro la volontà dell’altro”.

Ciò si poteva desumere proprio dalla condotta della donna, ossia dalle modalità di trasferimento della minore e dal significativo lasso temporale intercorso: appariva, dunque, evidente la volontà di rendere impossibile, e non soltanto difficoltoso, l’esercizio delle facoltà e dei diritti riconnessi alla responsabilità genitoriale del padre. La donna veniva condannata al pagamento delle spese processuali.

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