Zucchi, un imprenditore che ha preferito Londra

“Cedo la mia azienda allo Stato e me ne vado. Queste sono le chiavi della mia attività. Con stasera ho finito. Domani i miei negozi li aprite voi”. Due anni fa l’imprenditore emiliano Andrea Zucchi si rivolse così a Gianfranco Polillo, allora sottosegretario al Ministero dell’Economia, concludendo il suo discorso su La7, durante una puntata di Piazza Pulita. Sposato, con due figli, originario di Fidenza, Zucchi aveva fino a poco tempo fa due punti vendita di occhiali nel piacentino. A distanza di due anni da quella sua “provocazione” – ma non poi tanto – gli abbiamo rivolto alcune domande.

Cosa l’ha portata a decidere di mollare tutto quello che aveva costruito nel lungo periodo e di ricominciare da capo?

Due anni fa ero un uomo solo che decideva di chiudere con una vita che vedevo senza futuro perché affossata dalle circostanze, senza altro progetto o conforto che non fosse la vicinanza di un amico. Una famiglia, due figli e nulla in mano. Non un curriculum vitae spendibile, le risorse personali esaurite nel tentativo di sostenere l’attività, la casa dei genitori venduta per pagare i dipendenti. Tutti gli errori degli sprovveduti imprenditori italiani, io li ho commessi. L’errore base, centrale fu quello di sperare, aspettare e chiedere alla politica di cambiare le sorti della mia attività, della mia vita.

Una storia sicuramente dolorosa, ma le sue difficoltà sono le stesse di moltissimi imprenditori italiani che, seppur risentendo gravemente della crisi che viviamo, non si arrendono. Non era forse meglio stringere i denti e guardare avanti con fiducia?

Quando realizzai che il mio modo di pensare non era da imprenditore adatto a lavorare in Italia, fu molto semplice prendere la decisione di chiamarmi fuori. Il gesto era frutto di una semplice constatazione: nella migliore delle ipotesi, anche giungendo un Messia a Palazzo Chigi, per cambiare nel profondo gli ingranaggi della vita di questo Paese, per recuperare la distanza siderale tra le possibilità d’impresa qui e le possibilità come esistono altrove, occorrono lustri. Nel frattempo il tessuto di piccole medie imprese incastrate nei lacci materiali e soprattutto nella mentalità nostrana di andare sempre a chiedere a qualcuno che ci risolva i problemi, si dissolverà.

La sua è una visione molto pessimistica. Se tutti la pensassero come lei, l’Italia fallirebbe.

Se posso fare una battuta: mai mi sarei immaginato che dal giorno in cui la mia attività ha chiuso i battenti, la totalità della classe dirigente del paese, con grande e accorata partecipazione della società civile, si organizzasse così efficientemente per darmi ragione. Tutto ciò che, da allora ad oggi, potesse peggiorare la situazione è stato fatto.  Il nostro è un Paese che vive un totale scollamento dalla realtà.

Cosa è stato, secondo lei, ad averci portato a questa situazione?

Questa crisi è sicuramente il frutto di almeno cinquant’anni di cultura della deresponsabilizzazione individuale, della penalizzazione dell’eccellenza, dell’esaltazione della mediocrità. Ma non è così semplice affrontare la questione: questo meccanismo di deresponsabilizzazione ha contagiato l’impresa e ora non produce risultati. “Io non ho successo per colpa di questo Paese” è un pensiero penalizzante perché mi assolve ed è un pensiero inutile perché non mi dà soluzioni.

Agli aspiranti imprenditori di oggi cosa consiglierebbe?

E’ più intelligente mettersi in cinque e fare 5 business insieme. E’ solo un esempio e non è l’unico modo. E’ un criterio. Con questi criteri si può entrare in un gioco più grande e reggerlo. Le opportunità della fiscalità internazionale offrono ad esempio una grande semplificazione per strutturare giuridicamente il lavoro, ciò che permette di lavorare con regole chiare e rispettarle. E’ inoltre bene allenarsi a pensare differentemente dai colleghi per rendere differenti le proprie performance di lavoro.

Attualmente di cosa si occupa?

Con un capitale di 500 mila sterline, ho messo su una società con base a Londra, Admilia Holding. Da imprenditore, posso dire che la cosa più importante è il formidabile capitale umano della mia azienda. Quest’ultimo si è aggregato anche grazie al nostro metodo di lavoro: ci siamo dati una nostra etica di squadra, di appartenenza, di lealtà.

Cosa le ha insegnato la sua esperienza di imprenditore in Italia, con tutti  i disagi e  ostacoli che questa ha comportato?

La vita ci dirà dove possiamo arrivare; in ogni caso provo, ogni istante, la soddisfazione di viverla provandoci fino in fondo, a testa alta, guardando negli occhi il mio destino. Inizialmente non avevo questa visione delle cose. Da quando ho cambiato il mio pensiero, è cambiata la mia vita.

©Futuro Europa®

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