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L’estate sta finendo

Negli anni Sessanta, e fino ai Settanta, la villeggiatura non era solo un lusso, era un appuntamento fisso con la famiglia, e in certi casi l’unico momento dell’anno in cui ci si rivedeva davvero. Si tornava al paese d’origine o ci si ritrovava in qualche pensioncina al mare o in montagna. C’erano zie, cugini, fratelli emigrati, bambini che si chiamavano per nome anche se non si vedevano da un anno intero. Si partiva con le valigie di cartone legate con lo spago, i treni affollati, il termos del caffè, il pane imbottito per il viaggio. La destinazione contava relativamente. L’importante era andare in villeggiatura. E le Fiat Cinquecento, cariche di bagagli sul tetto, affrontavano i viaggi con uno spirito che le macchine di oggi non riescono ad eguagliare. I bambini li portavi al mare perché “fa bene ai polmoni”, o in montagna “che c’è l’aria buona”. Non servivano troppe spiegazioni scientifiche. Bastava il consiglio del medico condotto e un po’ di sole a picco sullo stabilimento, dove le sdraio erano tutte uguali e la sabbia diventava forno dopo le undici. I genitori si sistemavano sotto l’ombrellone, si parlava con gli altri villeggianti, si leggevano i giornali del giorno prima. I bambini si perdevano in gruppi anarchici di secchielli, pistole ad acqua e ginocchia sbucciate. Ogni tanto passava il fotografo con il cavalletto. “Dai, facciamola che poi la prendiamo al rientro”.

Probabilmente con il turismo organizzato, i viaggi low cost, i villaggi turistici, è iniziato un cambiamento di abitudini. Ibiza all inclusive e discoteche. E siamo arrivati ad oggi. Oggi è diverso. Niente villeggiatura. I bambini vanno da soli, settimane prima, in campi estivi sportivi, centri linguistici, colonie da Instagram, organizzati come un calendario aziendale. Genitori che restano a casa, forse per riposare, più spesso per lavorare meglio. Quando vanno in vacanza anche loro, tutto è compresso, accelerato, impacchettato. Cinque giorni qui, tre là, esperienze da collezionare, filtri da applicare, colazioni da fotografare.

Non c’è più quella lunga noia dell’estate, che lasciava il tempo di guardarsi intorno, che produceva amicizie di sabbia, gelati sciolti e primi balli goffi. La noia oggi fa paura, è colmata da uno scroll, da un contenuto, da una playlist. E le emozioni devono essere tutte documentabili. Altrimenti, sembra non valgano.

Anche la musica ha cambiato ritmo. Una volta c’era il jukebox, e ogni moneta era una scelta. Si ballava sulle note dei 45 giri, nelle piazze, davanti ai bar, su mattonelle roventi. Bastava un battito, una stretta di mano e via, si andava. Era tutto più analogico, anche il desiderio. C’erano le feste di paese, le sagre, le balere all’aperto, le notti che finivano col profumo di basilico e di zanzare.

Oggi ci sono le mega-discoteche, i tormentoni le serate con DJ da milioni di follower, gli eventi su prenotazione, i biglietti online. Si balla sempre, ma spesso ognuno da solo, immerso in un suono assordante e in una luce intermittente. L’incontro avviene sui social, il contatto è filtrato, e la musica è un sottofondo più che un collante.

Tutto questo non è nostalgia, è constatazione. Il mondo è cambiato. Le ferie sono cambiate. E anche noi, forse, siamo diventati più esigenti e più distratti. Una volta si andava in vacanza per staccare, oggi si parte per restare connessi, con la rete, con il lavoro, con gli altri. Ma sempre connessi.

Il ritorno a casa segnava la fine dell’estate. Oggi si torna e si posta il meglio della settimana per altri sette giorni. Poi settembre arriva lo stesso, ma non fa più lo stesso effetto. Non ci trovi più i quaderni nuovi, il profumo della copertina, la tristezza buona del pomeriggio corto. C’è solo un’altra notifica, un altro reel, un’altra corsa.

L’estate sta finendo, dicevano i Righeira. Ma nessuno oggi ha tempo di accorgersene. Troppo impegnati a raccontarla. Eppure, qualcosa manca. Manca quella lentezza impolverata che ci faceva desiderare di tornare a scuola per raccontare il nulla che avevamo fatto. Manca quella sabbia nelle scarpe che restava giorni dopo il rientro. Manca quel giorno in cui ci si salutava con un abbraccio e una promessa che non sarebbe passata un’altra estate prima di rivedersi. Promessa, spesso, non mantenuta. Ma almeno era vera. E ora possiamo pure fotografare ogni cosa. Ma non sempre siamo dentro la foto.

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