
Cambogia 1975, l’inizio di un genocidio
Era il 1975, esattamente cinquant’anni fa. Il mondo era ancora nella morsa gelida della Guerra Fredda, diviso in due sfere d’influenza: da un lato gli Stati Uniti, dall’altro l’Unione Sovietica. Due anni prima, gli americani avevano abbandonato il Vietnam, e proprio nel 1975 cadeva Saigon, sancendo la fine di una guerra iniziata oltre un decennio prima. Dall’altra parte del mondo, il Cile era sotto Augusto Pinochet, insediatosi con un colpo di Stato violento e sanguinario. E l’Italia? Come all’epoca dei Guelfi e Ghibellini, o di Coppi e Bartali, era divisa in due fazioni ideologiche che non esitavano a scendere in piazza con rabbia, con bandiere, con bastoni.
Proprio in quel clima infuocato, nel cuore dell’Asia, accadde qualcosa di spaventoso. I Khmer Rossi, guidati da Pol Pot, entrarono a Phnom Penh. Iniziò uno dei genocidi più efferati del Novecento: due milioni di morti, un quarto dell’intera popolazione cambogiana. Un regime delirante, che abolì la proprietà privata, la religione, la famiglia, la moneta. Le città vennero svuotate, le scuole chiuse, i bambini separati dai genitori, gli intellettuali eliminati. E per essere ritenuti intellettuali bastava indossare un paio di occhiali.
L’11 aprile del 1975, mentre i massacri in Cambogia erano la quotidianità, il Comitato Centrale del Partito Comunista Italiano (tra cui Enrico Berlinguer, Giorgio Napolitano, Massimo D’Alema, Antonio Bassolino, Armando Cossutta) stilava un comunicato storico, destinato a rimanere nella memoria ma rimosso in fretta dalla storia ufficiale del PCI. Il documento giustificava e appoggiava il movimento di Pol Pot. “Ogni democratico, ogni comunista, sia, come sempre e più di sempre, al loro fianco”. E i “loro” erano i Khmer Rossi. A Piazza Maggiore, a Bologna, il PCI organizzò una manifestazione oceanica. L’oratore principale? Massimo D’Alema, segretario nazionale della Federazione Giovanile Comunista Italiana.
Non bastava applaudire: bisognava esaltare. Il quotidiano L’Unità inviò i propri giornalisti in Cambogia, a seguito della grande manifestazione, per raccontare la “straordinaria rivoluzione comunista” dei Khmer. Quando i telegiornali RAI iniziarono a trasmettere immagini e notizie sulle atrocità di Pol Pot e dei suoi seguaci, L’Unità reagì con veemenza. In prima pagina titolò: “I falsari della TV”, accusando la RAI di “esibizione di parzialità e menzogna”.
In un clima in cui il PCI dominava la narrazione culturale e mediatica, una voce sola ebbe il coraggio di parlare contro: quella di Indro Montanelli. Con il suo Giornale appena fondato, Montanelli denunciò la follia di applaudire un regime sanguinario, criticare chi diceva la verità e santificare chi eliminava bambini e dissidenti. Fu una voce isolata, derisa, demonizzata, ma oggi, col senno di chi ha visto la storia, risulta essere una delle poche ad aver mantenuto la schiena dritta.
E oggi? Nessuno si è scusato. Nessuno ha preso posizione. Non Massimo D’Alema, che nel frattempo è diventato Presidente del Consiglio dei ministri. Non Giorgio Napolitano, che ha ricoperto per due volte il ruolo di Presidente della Repubblica, massima carica dello Stato. Mai una parola. Mai un gesto. Mai un “abbiamo sbagliato”. Per loro, per questi “democratici”, i Khmer Rossi sono ancora da celebrare?
Da “ammirare” la coerenza de L’Unità che non si distaccò da prese di posizione passate come nel 1956 quando descrisse gli insorti come “teppisti” e “spregevoli provocatori”, “fascisti” e “nostalgici del regime Horthyano” e giustificò l’intervento delle truppe sovietiche come elemento di “stabilizzazione internazionale” e “contributo alla pace nel mondo” così come nel 1968 quando minimizzò il dissenso popolare a Praga limitandosi a rilevare che “non una scritta anticomunista o antisovietica è comparsa sui muri della capitale in tutti i mesi precedenti”.
La storia non chiede vendetta. Ma pretende memoria. E la memoria, se è onesta, non può convivere con la rimozione e l’ipocrisia. La verità, come il sangue, affiora. Anche sotto la sabbia ideologica.
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