Sara De Chiara: gli indiani metropolitani di Pablo Echaurren

La programmazione della Project Room del MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna conferma la propria vocazione alla ricostruzione, al racconto e alla valorizzazione delle esperienze artistiche del territorio bolognese ed emiliano-romagnolo con Viola! Pablo Echaurren e gli indiani metropolitani, il nuovo progetto espositivo a cura di Sara De Chiara, inaugurato il 27 gennaio 2023 in occasione di ART CITY Bologna. L’esposizione è realizzata con il sostegno del Trust per l’Arte Contemporanea e in collaborazione con Fondazione Echaurren Salaris, Bibliotheca Hertziana – Istituto Max Planck per la storia dell’arte e Ab Rogers Design. La mostra offre l’occasione di approfondire per la prima volta il rapporto di Pablo Echaurren (Roma, 1951) con il contesto bolognese, attraverso una selezione di opere realizzate tra il 1977 e il 1978, di pagine di Lotta Continua, di collage, fanzine e illustrazioni ispirati agli avvenimenti e alla poetica del Settantasette. Il percorso espositivo include un gruppo di “quadratini”, realizzati nella prima metà degli anni Settanta, la cui produzione è stata abbandonata proprio dopo gli avvenimenti di quell’anno così cruciale per Bologna. Oltre a questi, esulano dal biennio ’77-78 alcuni assemblage raccolti all’interno di scatole, appartenenti a una produzione recente (2020-22), incentrata sulle scoperte scientifiche legate all’uomo di Neanderthal, ma che tornano anche a riflettere sull’esperienza degli anni Settanta (quasi un passaggio di testimone tra indiani metropolitani e neanderthaliani metropolitani). Tutti i lavori proposti provengono dall’archivio dell’artista a Roma e alcuni sono qui esposti per la prima volta.

Buongiorno Sara, stiamo ammirando questa bellissima mostra di Pablo Echaurren nell’ambito di Art City, come è nata l’idea di questa esposizione?

La mostra rientra nel programma della Project Room dedicato ad approfondimenti sull’arte nel contesto bolognese e nell’ambito della manifestazione di Art City. È stata l’occasione di guardare all’opera di Pablo Echaurren da una nuova angolazione, facendo emergere le convergenze della sua produzione degli anni ‘70 con la città di Bologna. Il 1977 è stato un anno di svolta all’interno della pratica dell’artista e nodale per Bologna. In quell’anno, le proteste di piazza e la dura repressione delle forze dell’ordine sancirono l’abbandono da parte di Echaurren della creazione artistica, rappresentata in gran parte dai “quadratini”, la fine della sua collaborazione con le gallerie per mettere la sua creatività al servizio della controcultura. Con questa mostra vogliamo mettere in evidenza questo passaggio e la coincidenza con i fatti di Bologna di quell’anno.

L’attività artistica di Echaurren inizia verso la fine degli anni Sessanta e nell’ambito della “controcultura” si concentra, come diceva, nel biennio 1977-78, poi nell’esposizione si vede uno stacco fino ai giorni nostri al 2020, ma non aveva abbandonato l’arte?

No, ci fu un periodo di distacco, coincidente con la sua attività di “indiano metropolitano”, in cui il nome dell’artista, dell’autore, si era dissolto nella dimensione collettiva; dalla pittura Echaurren passa alla produzione di fanzine e di collage, nuovi modi di comunicare attraverso un linguaggio visivo, ma anche verbale. Assistiamo a un tipo originale di comunicazione rivolto ai giovani, non per nulla definito “avanguardia di massa” da Maurizio Calvesi nel 1978, un linguaggio dirompente che attingeva ai modelli dell’avanguardia di primo Novecento, ma che usciva dal mondo elitario dell’arte, dalle sale delle gallerie e dilagare nelle strade. Fu una stagione molto breve, ma davvero prolifica, terminata nel momento in cui la violenza degli scontri prese il sopravvento e la creatività non poteva più trovare i suoi spazi in questa dimensione.

Cercando in rete non si trova molto su Pablo Echaurren, forse un bisogno, una volontà, inconscia o meno, da parte della società di “silenziare” un periodo molto controverso della storia italiana?

Sicuramente gli anni ’70 sono tornati al centro dell’interesse collettivo; l’iniziativa della Bibliotheca Hertziana, per esempio, che nell’ambito del progetto Rome Contemporary ha creato un archivio online contenente le scansioni delle fanzine, delle riviste, dei manifesti, dei giornali cui l’artista ha collaborato o conservati nel suo archivio, attesta questo rinnovato interesse. A livello individuale, la coraggiosa scelta di Pablo Echaurren, che fin da giovanissimo lavorava nella prestigiosa galleria di Arturo Schwarz, di abbandonare il mondo dell’arte con la “A” maiuscola per dedicarsi a una pratica impegnata, anonima, di massa, ha segnato la sua vicenda. La difficoltà di inquadrare la sua produzione eterogenea, che nel corso dei decenni si snoda tra pittura e scrittura, fumetto, grafica e scultura in ceramica, all’insegna di una mescolanza dei codici, dei registri alto e basso, ha giocato la sua parte. In questa mostra, alle pareti si può ammirare un gruppo di assemblage recenti incentrati sull’uomo di Neanderthal, un ennesimo passaggio nella produzione di Echaurren.

A prima vista l’impressione è che ci sia uno stacco artistico tra il 1978 e il 2020 dove riprende con l’uomo di Neanderthal.

Quella di creare un ponte tra le opere del 1977-78 e i recenti assemblage è una scelta espositiva, ma l’attività creativa di Echaurren non si è mai arrestata. Accostando queste due tipologie di lavori nell’ambito della mostra si vuole sottolineare il richiamo a un’ideale dimensione di “altrove”, rappresentata dai nativi americani per i giovani degli anni ‘70, che nominandosi “indiani metropolitani” si schieravano dalla parte dei popoli oppressi dalle imposizioni della civiltà dominante, e dall’uomo di Neanderthal, ominide estinto, probabilmente per “mano” del Sapiens, da cui tutti discendiamo. Entrambi sono eletti a simbolo di resistenza, Echaurren si schiera dalla loro parte.

Anche gli “indiani metropolitani” erano una forma “primordiale” mi viene da dire, prima non esisteva una forma come quella che hanno interpretato.

Sicuramente, la creatività degli indiani metropolitani rivendica la propria autonomia rispetto i canoni predefiniti.

Valutare la controcultura a distanza di mezzo secolo, possiamo attribuirle un valore attuale?

Sicuramente sì! Non ho vissuto gli anni ’70, il mio è uno sguardo da ‘esterno’; per il progetto espositivo è stato coinvolto lo studio Ab Rogers Design di Londra, aggiungendo un ulteriore punto di vista, diverso non solo per generazione, ma anche non italiano. Insieme abbiamo riflettuto sugli anni ’70 attraverso il filtro dell’opera di Echaurren, e con le scelte espositive abbiamo tentato di trasformare la sua vicenda personale in cassa di risonanza del sentire di una generazione per una breve stagione, facendo perno su Bologna. Si tratta di una esperienza irripetibile, ma l’invito a pensare controcorrente e ad affinare il proprio spirito critico, che trapela da un’opera che ricorre al senso di straniamento e ironicamente mette in dubbio qualsiasi affermazione, è attuale.

Come sei venuta a contatto con il mondo di Echaurren?

In parte casualmente: a Roma ho lavorato a lungo con il prof. Maurizio Calvesi, uno dei primi interpreti del lavoro di Echaurren alla fine degli anni ‘70, e con sua moglie Augusta Monferini. Per il loro tramite ho incontrato Pablo Echaurren e sua moglie Claudia Salaris, storica dell’arte esperta di futurismo. A partire da questo incontro mi appassionata all’esperienza artistica e intellettuale di Pablo Echaurren e abbiamo iniziato a collaborare a diverse iniziative. A maggio curerò insieme con Natxo Checa una sua mostra personale a Lisbona, nello spazio non-profit Zé dos Bois – uno dei progetti vincitori del bando dell’Italian Council.

Il titolo della mostra è affascinante, Viola! Non è un sostantivo, ma una declinazione verbale.

Esatto! È una parola a doppio senso, un’espressione caratteristica della plasticità del linguaggio di Pablo Echaurren, è un invito, non un imperativo, a “violare”, rompere gli schemi, guardare oltre.

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