Francesca Rosignoli (URV): Giustizia ambientale e migrazioni

Lavora attualmente come Postdoctoral Fellow presso l’Universitat Rovira i Virgili (URV) in Spagna. All’URV, Francesca Rosignoli sta proseguendo un progetto di ricerca sul tema delle migrazioni climatiche, nella prospettiva del genere nel contesto dell’Unione Europea, cominciato nel 2021 presso lo Swedish Collegium for Advanced Study di Uppsala, SCAS (Svezia). SCAS è un istituto scientifico supportato dal governo svedese e da altre fondazioni per promuovere la libera ricerca in un contesto di dialogo multidisciplinare tra scienze umane, sociali e naturali. L’istituto è parte della rete SIAS (Some Institutes for Advanced Study) che comprende nove istituti gemelli in Europa e in Nord America. Francesca si era già occupata di migrazioni climatiche come Postdoctoral Fellow presso il dipartimento di Scienze politiche della Stockholm University (Svezia). Dal 2019 al 2021, infatti, ha portato a termine un progetto di ricerca sulla giustizia ambientale e i rifugiati climatici. A Stoccolma, ha anche lavorato all’interno del Team multidisciplinare di postdoc per la promozione del campo di ricerca delle Environmental Humanities. Nel 2016 ha ricevuto il titolo di dottore di ricerca in Diritto pubblico, comparato e internazionale presso l’Università “La Sapienza” di Roma, dopo aver trascorso due anni di ricerca alla Freie Universität di Berlino come visiting scholar. Ha pubblicato diversi articoli scientifici in Italia e all’estero. Le sue principali pubblicazioni sono due monografie: la prima dal titolo “Giustizia ambientale” uscita nel 2020 edita da Castelvecchi Editore e la seconda, in inglese, dal titolo “Environmental Justice for Climate Refugees” pubblicata da Routledge a maggio 2022.

In occasione del TEDx BolognaSalon – Giustizia Ambientale e Migrazioni, tenutosi al Teatro Manzoni in Bologna a giugno scorso, abbiamo intervistato la dott.ssa Rosignoli in merito al suo speech.

Migranti, profughi, richiedenti asilo, tante definizioni e forse tanta confusione, vuole chiarire le differenze fondamentali tra le fattispecie?

Con il termine migrante s’intende una persona la cui migrazione è volontaria. Scopo del migrante è infatti quello di spostarsi in un altro paese diverso da quello di origine per migliorare la propria situazione economica. In altre parole, il migrante si sposta perché “vuole una vita migliore”. Quando usiamo il termine rifugiato, invece, usiamo un termine giuridico/tecnico a cui corrisponde una definizione giuridica precisa e stringente che troviamo nella Convenzione di Ginevra del 1951 letta congiuntamente al protocollo del 1967. Questa descrive il rifugiato come “chiunque […] nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trovi fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può, o per tale timore, non vuole avvalersi della protezione di detto Stato […]”. In analogia con quanto detto rispetto al migrante, il rifugiato si sposta perché “ha paura di essere perseguitato, subire violenza, essere torturato o rischiare la vita” nel proprio paese di origine. Il suo movimento è dunque forzato e non volontario come quello del migrante. Spesso si usa erroneamente il termine “profugo” per riferirsi a questa fattispecie. Il termine “profugo”, tuttavia, non ha alcun significato giuridico e ad esso non corrisponde/consegue nessuna forma di protezione secondo il diritto internazionale. La figura del “richiedente asilo”, come suggerisce il termine, fa riferimento a qualsiasi persona che abbia presentato domanda di asilo (ovvero protezione contro la persecuzione) presso un paese diverso da quello di origine e si trovi in attesa che la sua domanda sia accolta o respinta. La richiesta di asilo è regolata da convenzioni internazionali quali la Convenzione di Ginevra o il Regolamento Dublino III, e da leggi nazionali.

La catastrofe climatica non è forse una guerra? Che significato ha questa divisione surreale tra profughi di guerra, economici, per il clima, quali differenze ci sono?

Solo i profughi di guerra hanno la possibilità di essere riconosciuti come rifugiati. Proprio perché il loro movimento è forzato e rischiano la vita nel caso tornassero nel proprio paese di origine. Il profugo economico, invece, viene considerato migrante economico. Fugge nella speranza di avere una vita migliore. Il suo movimento è dunque volontario e la sua situazione non incontra nessuno dei parametri stringenti indicati dalla Convenzione di Ginevra per essere riconosciuto come rifugiato. Per quanto riguarda i profughi climatici, essi non godono di alcun riconoscimento giuridico e vengono spesso classificati come migranti irregolari, pur trovandosi molto spesso nelle stesse situazioni di estrema vulnerabilità dei rifugiati di guerra: non hanno più una casa, un lavoro, un posto dove andare, hanno subito lutti, e rischiano la vita nel caso tornassero in un paese, quello di origine, che rischia di diventare inabitabile.

Già mi pare difficile definire un profugo di guerra, ci sono guerre dichiarate e “ufficiali”, tante altre combattute senza dichiarazioni, come discriminare un tipo di guerra da un’altra per attribuire o meno lo status?

La sua osservazione rispetto alle tante guerre “non ufficiali” e combattute senza dichiarazione, mi fa pensare ai tantissimi conflitti ambientali scatenati dalla scarsità di risorse provocate dagli effetti del cambiamento climatico e/o dalle attività di estrattivismo in alcune regioni del mondo. Penso soprattutto alle guerriglie che incendiano tutta l’area circostante il lago Chad e il chiaro collegamento tra scarsità idrica, conflitti ambientali, e reclutamento presso organizzazioni terroristiche quali Boko Haram. Un libro che forse molti ricorderanno aveva, in questo senso, un titolo davvero evocativo: Effetto serra, effetto guerra (vedi https://www.amazon.it/Effetto-effetto-guerra-conflitti-migrazioni/dp/8861909345). Non solo queste “guerre climatiche” non sono riconosciute come “ufficiali”, ma sono spesso sovrapposte e intrecciate con quelle “ufficialmente riconosciute”. Un caso emblematico è la guerra in Siria. Per alcuni studiosi, infatti, la guerra in Siria dovrebbe essere considerata una guerra climatica iniziata prima di tutto con una violenta siccità che ha interessato il paese ben prima dello scoppio della guerra armata. A mio avviso, più che guardare alle cause di una guerra (siano esse climatiche o politiche, o molto più spesso l’insieme delle due cause), credo abbia più senso concentrarsi sugli effetti di queste guerre. Laddove la violazione dei diritti della popolazione civile è sistematica e la migrazione diviene dunque una questione di sopravvivenza, messa a dura prova nel paese di origine e nel caso di un eventuale ritorno, si dovrebbe poter attribuire lo stesso status giuridico. Ma questa rimane al momento una mia posizione, seppur condivisa anche da altri ricercatori.

E’ interessante anche la sottolineatura che nel suo talk ha messo sull’emergenza climatica a insorgenza rapida o lenta. Se avviene un fenomeno estremo come uno tsunami a esempio, le istituzioni si muovono subito, di fronte a uno lento come la siccità o la desertificazione paiono in perenne attesa. Nel primo caso si accolgono subito i profughi, nel secondo vengono respinti, magari con il solito “aiutiamoli a casa loro”, che poi non avviene mai. Giuridicamente ci troviamo di fronte a due status diversi, rifugiato e profugo, come si può comprendere e ovviare a questa differenziazione?

In realtà, secondo il diritto internazionale nessuno dei due casi può essere classificato come rifugiato. Nel caso di disastro ambientale, fenomeno climatico estremo o evento a insorgenza rapida le istituzioni si muovono più celermente in quanto: c’è uno sfollamento/possibile migrazione a larga scala, vi sono danni visibili e ingenti, si va incontro a una crisi umanitaria se non si prendono misure urgenti. Viceversa, il caso di evento a insorgenza lenta non comporta uno sfollamento o una migrazione di massa, non sempre presenta danni visibili e direttamente ricollegabili all’evento climatico e non provoca una crisi umanitaria immediata. Ecco perché alcuni amministratori locali hanno spesso le mani legate nel chiedere finanziamenti che “anticipino” o anche solo “rallentino” con adeguate misure di mitigazione/adattamento l’aggravamento del deterioramento ambientale. Ancor più che il termine “profugo”, il trend più recente evidenzia l’uso più frequente del termine “sfollato”, al quale, com’è noto, non corrisponde tuttavia alcuno status giuridico. Gli sfollati interni sono protetti da uno strumento di soft law, lasciato dunque alla volontarietà dei singoli stati per quanto concerne l’applicazione: si vedano i principi guida sullo sfollamento interno del 1998. L’unico strumento di hard law esistente è in vigore solo nel contesto africano. Si veda a questo proposito la Kampala Convention che, tuttavia, non è stata ratificata da tutti gli stati africani.

Il regolamento di Dublino è uno strumento cogente nato per regolare una migrazione che, ai tempi, non aveva la necessità di attivarsi per la massa di migranti che abbiamo nei tempi moderni. Stante la sua natura istitutiva e giuridica ha dimostrato i suoi limiti, quale altro strumento l’Europa potrebbe e dovrebbe mettere in atto, per gestire il fenomeno di migranti e profughi?

Credo che uno strumento esistente utile allo scopo sia la direttiva n.55 del 2001 applicata (finalmente!) e per la prima volta in occasione della guerra tra Russia e Ucraina.Questa direttiva garantisce la protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati e consente il riconoscimento immediato come rifugiati degli sfollati. Resta tuttavia il nodo della definizione di rifugiato: gli sfollati devono infatti rientrare nella definizione di rifugiato sancita dalla Convenzione di Ginevra, che, come detto prima, non consente tuttavia il riconoscimento degli “sfollati ambientali”. Per questi e per tutti gli altri casi da lei menzionati, quali migranti e profughi esclusi da questa definizione, credo che sarebbe opportuno dotarsi di un nuovo strumento giuridico in grado di dare protezione a tutte quelle persone che, pur non rientrando nella definizione di rifugiato della Convenzione di Ginevra, si trovano nelle medesime condizioni di vulnerabilità. Data la difficoltà di trovare un accordo tra i diversi stati su questo tema e l’elevatissimo rischio di ottenere l’effetto contrario, ovvero adottare uno strumento più restrittivo di quello attuale per il riconoscimento dei rifugiati, credo sia più fattibile nonché più prudente optare per interpretare in modo più estensivo le attuali disposizioni vigenti.

La seconda soluzione che lei propone, oltre quella radicale di un nuovo strumento giuridico, è l’interpretazione estensiva delle norme vigenti, in che modo si potrebbe adottare e utilizzare questa nuova visione?

Nel diritto vi sono due modi di colmare delle lacune giuridiche: creare una nuova legge, o adottare un’interpretazione estensiva di norme esistenti attraverso il criterio dell’ analogia. La mia proposta è, come accennavo sopra, di concentrarsi sulla medesima vulnerabilità che rifugiati di guerra, rifugiati climatici e in alcuni casi anche migranti economici si trovano a condividere. In altre parole, quello che deve guidarci è la ratio legis ovvero lo scopo, il fine ultimo sotteso a una disposizione normativa. Nel caso specifico, lo scopo è quello di proteggere gli individui da una violazione sistematica dei loro diritti umani. Sarà compito del giudice stabilire caso per caso se ci troviamo di fronte alla stessa fattispecie, ovvero alla stessa condizione di vulnerabilità che possa legittimare la protezione internazionale.

Semplificando al massimo, tutto si può fare se ci sono i soldi, quali fondi potrebbero essere utilizzati per accogliere i migranti o migliorare le condizioni climatiche nella loro terra di provenienza? Come reperire nuovi flussi di finanziamento a questo scopo?

Non sono un’esperta in questo campo, tuttavia rispetto ai fondi disponibili mi vengono in mente il Global Environmental Facility (GEF) e il Green Climate Fund (GCF). In generale, ritengo che più ancora che trovare nuovi flussi di finanziamento, sia necessario facilitare la fruizione di quelli esistenti. Molte vite potrebbero essere salvate se solo si cominciasse a “spendere soldi” prima del verificarsi dei disastri ambientali. Molti di questi sono infatti prevedibili. Perché aspettare dunque il disastro per poter accedere a fondi che potrebbero per esempio consentire di anticipare le misure di evacuazione, organizzare il trasporto locale/straordinario per mettere in salvo i gruppi più vulnerabili (donne, anziani, bambini, poveri) e più in generale contenere i danni derivanti da fenomeni climatici estremi prevedibili? Credo che una governance anticipatrice supportata da un finanziamento ex-ante potrebbe già essere un grande passo in avanti.

A settembre 2020 la Commissione Europea ha presentato il “Patto sulla migrazione e l’asilo”; quali pregi e difetti trova in questa proposta?

Tra i difetti, citerei in primo luogo la natura dello strumento che è di soft law: i singoli stati non sono vincolati a rispettare le disposizioni contenute in esso. In secondo luogo, manca un riferimento esplicito ai migranti climatici. Il testo si limita infatti a indicare il cambiamento climatico tra le varie sfide della società che hanno un impatto sulla migrazione. Infine, considero un difetto l’enfasi eccessiva sul controllo dei confini, sui respingimenti e sull’uso di nuove procedure di screening. Tutti aspetti che riflettono una deriva securitaria europea sul tema della migrazione ormai quasi irreversibile. Tra i pregi segnalerei lo sforzo esplicito di contrastare la migrazione irregolare compresi tutti i fenomeni ad essa collegata: violenza di genere, tratte di essere umani, sfruttamento sessuale di donne e minori, e il traffico di migranti.

Il numero totale di persone che sono costrette a fuggire da guerre e persecuzioni ha raggiunto gli 80 milioni; circa il 36,5% dei rifugiati nel mondo sono bambini. Di fronte a questi dati è immaginabile agire solo con respingimenti o campi di accoglienza?

No. Occorre ripensare il modello di integrazione dei rifugiati dato che il movimento forzato sta diventando ormai un fenomeno strutturale e non più emergenziale. Non si può arrivare impreparati ogni volta come nel 2015. Servono politiche nuove che mettano le persone costrette a fuggire dai propri paesi di origine, soprattutto i minori, in condizione di inserirsi facilmente nelle società ospitanti.

Secondo i dati ISTAT la popolazione italiana calerà da 59,6 milioni di inizio 2020 a 58 nel 2030, a 54,1 milioni nel 2050 fino a 47,6 milioni nel 2070. Questo causerà un problema enorme rispetto al pil con il calo della forza lavoro, così come la mancanza di personale. Il programma blu card che la UE ha introdotto nel 2008 e usato spesso in Germania, non appare sufficiente. L’immigrazione non dovrebbe essere vista come un’opportunità per sanare il calo della natalità?

Di questo non sono completamente sicura. Gli immigrati affrontano le stesse difficoltà degli italiani “a mettere su famiglia” una volta stabiliti in Italia: salari bassi, difficoltà a trovare il giusto equilibrio tra il lavoro e la vita privata date le condizioni lavorative esistenti, persistenti pratiche discriminatorie in molti luoghi di lavoro per le donne incinte o neo mamme. Tutti questi fattori, ma ne potrei citare altri, contribuiscono a limitare il numero dei figli o a scegliere di non averne affatto. E questo vale sia per gli italiani che per gli immigrati.

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