Il disastro afghano

La caduta di Kabul – che era stata largamente prevista (v. mie note precedenti) – è avvenuta in modo molto più radicale e fulmineo dell’immaginato. Il Presidente Ashraf Ghani è scappato, le Forze Armate afghane si sono letteralmente liquefatte. La terribile conseguenza, anch’essa prevista, è la disperata fuga di centinaia di migliaia di persone che cercano di rifugiarsi in Pakistan o si aggrappano disperatamente agli aerei americani che riportano in patria diplomatici e civili, e prima o poi formeranno colonne di poveracci che invaderanno l’Europa.

Comunque lo si vesta, qualsiasi arrampicatura sugli specchi si faccia (come hanno tentato Biden e il suo Ministro degli Esteri Blinken) si tratta di un enorme disastro, che riporta la mente a un precedente terribile: Saigon 1976, i diplomatici occidentali che distruggono i documenti riservati, gli elicotteri che sorvolano l’Ambasciata USA, la ressa all’aeroporto, il panico tra le migliaia di persone che hanno di che temere dal nuovo regime.

Il disastro è innanzitutto americano: poco conta se la decisione di lasciare l’Afghanistan l’abbia presa Trump nel maggio 2020, l’Amministrazione Biden l’ha confermata e accelerata. Certo, dopo 20 anni di guerra, 20.000 morti e un trilione di dollari spesi, restare in quel Paese era politicamente intenibile e i sondaggi mostrano che il 70% della gente è d’accordo con la decisione di ritirarsi. Ma le obiezioni principali sono almeno due: la prima è che in venti anni e i soldi spesi, si sarebbe dovuti riuscire a creare una infrastruttura civile e militare solida e capace di resistere autonomamente all’assalto dei Talebani (questa era la strategia di Obama); al contrario, si sono gettati via tempo e denaro per mettere in piedi Forze Armate che, senza la stampella occidentale, si sono subito disfatte (e ora attrezzature per miliardi di dollari cadono ogni giorno nelle mani del vincitore). La seconda obiezione è – come in altri casi – la mancanza di una “exit strategy” qualsiasi, a parte i vaghi negoziati condotti per un certo tempo in Qatar dall’Amministrazione Trump.

L’insuccesso, naturalmente, non riguarda solo gli Stati Uniti, ma tutti quegli Alleati che hanno partecipato ai vent’anni di presenza in Afghanistan, soprattutto Germania, Francia e Italia (la responsabilità non può essere attribuita a un singolo governo, tutti hanno dovuto attenersi bene o male alle prime decisioni, prese nell’onda delle emozioni per le Torri Gemelle) e alla NATO nel suo insieme. Ma va da sé che sono stati gli americani a essere al centro di tutto, militare e politico, e quindi se ne devono assumere la colpa. La vicenda potrà forse valere a distogliere la NATO in futuro dalla tentazioni di impegnarsi in aree così lontane e impervie rispetto a quelle contemplate nel Trattato di Washington.

Non è difficile prevedere cosa accadrà ora in quel torturato paese. Niente fa pensare che i Talebani ritornino con propositi più concilianti e moderati. A soffrirne saranno innanzitutto le donne, ma con loro tutti quelli che non si pieghino a vivere in un regime oscurantista e fanatico, che supera per estremismo islamico i più bui del mondo arabo, e lo stesso Iran.

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