La statua di piazza Tienanmen

Probabilmente a Pechino, ed in particolare in Piazza Tienanmen, non vi saranno cerimonie per ricordare il massacro compiuto proprio in questi giorni, nel 1989 dal governo cinese per reprimere le proteste degli studenti che, nella primavera di quell’anno, rivendicavano l’attuazione della “Quinta modernizzazione.” Nel 1978 Deng Xiaoping aveva proposto le “Quattro modernizzazioni”: agricoltura, scienza e tecnologia, industria e difesa nazionale. In un Tazebao, i giornali murali che sono tutt’ora in uso in Cina (ma senza contenuti politici), l’attivista Wei Jingsheng aveva chiesto di inserire come quinto tema, l’inclusione della democrazia e del multipartitismo. Per questo gesto venne arrestato e detenuto fino al 1993 quando fu rilasciato per permettere di avere un maggiore dialogo da parte di Pechino finalizzato ad ottenere le Olimpiadi.

Quel vento che portò nel successivo novembre alla caduta del Muro di Berlino e allo sgretolamento dell’Unione Sovietica, percorse anche la Cina, ma ancora oggi parlare di quanto avvenne in quei giorni è vietato, tant’è che per evitare la censura, e forse peggio, la data del 4 giugno, giorno dell’eccidio, viene indicata come 35 maggio.

I numeri ufficiali forniti dal Regime parlano di duecento morti tra quelli che vengono definiti rivoltosi e agitatori di piazza, termini usati in un articolo, attribuito al longevo Deng, già ottantacinquenne all’epoca; pare che fu proprio questo articolo a scatenare le proteste iniziate a seguito di una richiesta di intellettuali e riformisti al Governo di prendere una posizione sulla figura di Hu Yaobang, Segretario del Partito morto pochi giorni prima e da queste categorie apprezzato.

Giorni di protesta e poi la repressione. Quanti furono realmente i civili massacrati dall’esercito di liberazione del popolo? Le stime più attendibili, ricavabili da documenti britannici de secretati dopo trent’anni, parlano di oltre diecimila; una stima attendibile se si calcola che furono almeno cinquantamila a scendere in piazza. Il simbolo della protesta rimane quello di un uomo, di cui mai si è conosciuta l’identità certa e la sorte che affronta un carro armato, ma un altro simbolo ha caratterizzato questa protesta e sembra essere passato in secondo piano: la dea della Democrazia.

Era stata imposta dal Governo la legge marziale, ma gli studenti dell’Accademia Centrale delle Belle Arti costruirono in quattro giorni una statua, alta tra gli otto e i dieci metri che, il 30 maggio, venne “inaugurata” davanti all’immagine di Mao Zedong che campeggiava sulla porta di Piazza Tienanmen. Ricorda molto la Statua della Libertà a New York e, ne possiamo essere certi, il Governo di Pechino non apprezzò questo particolare. Oggi di questa statua se ne hanno delle copie e viene usata, dove è possibile, per le celebrazioni del massacro. L’originale venne distrutto dall’esercito il 4 giugno successivo, ma per pochi giorni questa figura accompagnò le proteste degli studenti sulla piazza.

Sul suo basamento venne scritta una lunga frase che sottolineava, tra l’altro, come quel simbolo fosse di gesso e, come tale, non destinato a durare. Ma si leggeva anche in quella “calligrafia piuttosto rozza”, che sarebbe arrivato il giorno in cui su quella stessa piazza sarebbe stata costruita una nuova statua, permanente, alla Dea della Democrazia. In diecimila morirono per chiederla. La posizione ufficiale di Pechino, mai ritrattata da allora, resta che l’esercito, con il suo intervento, salvò il socialismo e si difese dall’attacco di controrivoluzionari. Le loro armi, le foto sono chiare, una statua di gesso, due buste che, dalle immagini, sembrano di un supermercato e un’arma pericolosa per i regimi: le idee del libero pensiero.

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