E se la politica riscoprisse la Filosofia?

Possiamo iniziare un’analisi politica muovendo dall’antica Grecia, magari da Atene che è considerata ancora un esempio di perfetto funzionamento della democrazia, quella forma di governo che secondo Sandro Pertini, anche nella sua forma più imperfetta resta da preferire alla più perfetta delle dittature. Ma non è necessario scomodare i padri della democrazia, da Solone a Pericle, per sottolinearne l’importanza e confidare che i principi democratici restino immutati per non incorrere nel rischio di cadere in mano a una dittatura o a governi demagogici se non, addirittura alla oclocrazia definita come governo della feccia o dei peggiori, vale a dire di masse che decidono sugli umori del momento. O è un rischio che stiamo realmente correndo, oggi, in un momento in cui le masse possono unirsi sotto l’egida di bandiere e messaggi sbagliati, sfruttando il potenziale di diffusione di messaggi tramite internet? Gli assalti ai luoghi del potere negli Stati Uniti, sotto la guida di soggetti a dir poco pittoreschi, in ogni caso pericolosi, dovrebbero suonare come un messaggio di allarme in ogni paese che voglia realmente mantenersi democratico.

E’ forse giunto il momento che la politica torni a quello che era nell’intenzione dei creatori del termine e si parli di arte del governare? Una scienza che ha (dovrebbe avere) come suo fine supremo il bene comune? Magari salvando comunque la “Ragion di Stato”, quel contesto che potrebbe anche giustificare comportamenti non ortodossi nel superiore interesse di una nazione o di un popolo. Con questo termine è erroneamente definita l’ideologia di Machiavelli sulla base della frase, mai detta dal segretario fiorentino secondo cui il fine giustifica i mezzi; il primo ad usarla sembra sia stato Guicciardini anche se la reale paternità è attribuibile a Giovanni Botero e la massima applicazione si trova nel Cardinale Richelieu che riuscì ad applicarla portando la Francia ad un ruolo di primario rilievo in Europa.

In ogni caso sarebbe opportuno riflettere su come alla base dell’elaborazione di sistemi politici vi siano stati più o meno sempre intellettuali che avevano una formazione culturale a dir poco di alto livello e una cultura umanistica che muoveva dalla conoscenza degli antichi filosofi. Anche Marx non ne è certo immune e, non a caso, il suo pensiero è stato fatto muovere addirittura da Epicuro.

Oggi sembra veramente una “mission impossible” chiedere ai nostri attuali governanti di dare una prova della conoscenza di concetti alti come quelli filosofici e, prendiamone atto, è purtroppo difficile credere che la massa-maggioranza di un corpo elettorale voglia valutare un candidato sulla base della sua preparazione culturale. Il politico che ottiene più voti è quello che parla un linguaggio semplice, quasi banale, fatto di slogan che vengono creati con gli stessi principi della pubblicità. L’elettore vuole semplicità e concetti banali ma di sicuro appeal; la massa si annoierebbe anche solo ad un comizio elettorale come quelli che si vedevano nelle piazze fino alla prima repubblica. Via quindi con jingles quali “Tutti in galera e buttare via la chiave” o “Abbiamo eliminato la povertà.” Possiamo chiedere all’elettore medio di ascoltare le spiegazioni di un economista che vuole far comprendere come i sistemi di assistenzialismo siano un danno per l’economia oppure un giurista che spiega come la nostra Costituzione e qualche decina di trattati internazionali vietino certi tipi di pene?

Invece potrebbe essere questo il momento buono per riflettere l’intera politica sia nel senso di scienza di arte di governare sia come applicazione concreta al nuovo contesto dei princìpi che ne sono alla base. Ed anche se ci troviamo in una società ipertecnologica, che non ha alcuna analogia o somiglianza neppure con quelle di trent’anni fa, figuriamoci con l’antica Grecia, ripensare alcuni aspetti filosofici da applicare, potrebbe avere un senso.

Ed al di là di ogni richiamo a forme di filosofia più che datate, potremmo rifarci a concetti più recenti e riscoprire il pragmatismo di Ralph Waldo Emerson, anche scrittore e saggista la cui opera ha influito sulla cultura americana fino alla beat generation di Kerouac. Il pensiero di Emerson fu sviluppato successivamente da altri filosofi ed è giunto anche in Italia: nomi a dir poco eccezionali del giornalismo quali Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini.

I concetti base del pragmatismo, qui necessariamente semplificati ma comunque validi ai fini di una sua applicazione alla politica sono quelli secondo cui la verità di una teoria venga affidata ad una verifica pratica e che questa pratica dimostri la concretezza di principi e ideali rispetto alla semplice teoria accompagnata non da verifiche bensì da slogan e frasi fatte.

Tutto ciò dovrebbe essere fatto ovviamente prima da parte di chi ritiene di avere in mano la bacchetta magica con cui risolvere i problemi creati magari da decenni di malgoverno precedente che hanno probabilmente minato molte basi e infrastrutture di un sistema e di un paese al punto di richiedere interventi massivi e organici rispetto a qualche provvedimento che possa trovare l’adesione di pancia degli entusiasti del momento per poi rivelarsi distruttivo. Sintesi: chi vuole far politica non può presentarsi con idee da fiera di paese, ma con programmi strutturali che sappiano resistere alla fase pratica. E per farlo devono partire da idee valide e attuabili.

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