Cronache dai Palazzi

Un governo di legislatura sulla base di una nuova maggioranza da verificare in Parlamento; un governo istituzionale per scongiurare l’aumento dell’Iva e andare alle urne in primavera secondo la ricetta renziana; oppure, come suggerito da Matteo Salvini, un governo di garanzia, o “neutro”, in pratica un esercizio provvisorio per andare subito al voto tra ottobre e novembre.

Tra le tante ci sarebbe anche l’ipotesi Conte bis, tantoché il presidente del Consiglio ancora in carica passerebbe dal Senato al Quirinale per ricevere un nuovo incarico dal capo dello Stato. Si giocherebbe così la carta della non sfiducia ma i vari partiti dovrebbero fare ognuno un passo indietro.

Per ora il premier Conte è atteso a Palazzo Madama martedì 20 agosto e il giorno successivo alla Camera. “Il perseguimento del bene comune è la direzione che ho sempre seguito e seguirò fino alla fine, nell’interesse degli italiani e dell’Italia intera”, ha dichiarato Giuseppe Conte che il 20 agosto potrebbe salire al Quirinale per dare le dimissioni, oppure, potrebbe far votare in Aula la mozione di sfiducia per “parlamentarizzare” la crisi. Tutto ciò con la consapevolezza che lo scioglimento delle Camere – aspramente auspicato dal Carroccio – potrebbe mettere a repentaglio i conti pubblici, la legge di Bilancio e anche i rapporti con l’Unione europea.

La cosiddetta “mozione di sfiducia” è l’atto con cui il Parlamento ufficializza il venir meno della fiducia al governo. Deve essere sottoscritta da almeno un decimo dei parlamentari della Camera nella quale viene presentata, e può riguardare un solo ministro o l’interno governo. Se passa seguono le dimissioni.

Il 22 agosto la Camera dovrebbe inoltre riunirsi per votare la riforma sul taglio dei parlamentari, ma qualora il presidente del Consiglio si dimettesse il lavoro del Parlamento si arresterebbe non potendo quindi procedere con il voto sulla riforma. Al contrario, nel caso in cui Conte sarà ancora in carica si potrà procedere con il voto sulla riforma del numero dei parlamentari. In pratica, per il via libera definitivo al testo manca l’ultima lettura della Camera. Il ddl era già stato calendarizzato per l’Aula il 9 settembre e si prevedeva di approvarlo intorno all’11 o al 12 settembre.

Il 26 agosto, invece, è il termine ultimo per le candidature a commissario Ue – l’Italia tra l’altro ha chiesto “un portafoglio economico di primo piano”, come dichiarato dal premier Conte – e entro il 15 ottobre il governo di Roma dovrà trasmettere a Bruxelles il documento programmatico di Bilancio.

Salvini ha per di più annunciato che “sarà doveroso verificare il reddito di cittadinanza”, il provvedimento targato cinquestelle. “Il 70% di chi chiede il reddito probabilmente non ne ha diritto, la misura va rivista”, ha dichiarato il viceministro leghista all’Economia, Massimo Garavaglia. Mentre per la viceministra pentastellata, Laura Castelli, “i numeri comunicati da Garavaglia non corrispondono al vero”; anche per il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico “al momento non ci sono dati” a proposito di eventuali irregolarità.

Al di là della crisi gli scenari potrebbero essere diversi. Il primo, palesato, è l’asse Pd-M5S basato su lavoro, fisco e ecologia lasciando da parte questioni spinose come la riforma della giustizia – considerate anche le “criticità” sollevate dal presidente Mattarella – che potrebbero rivelarsi controproducenti nel prosièguo della trattativa. “Bisogna partire dal lavoro – ha affermato Graziano Delrio, capogruppo del Pd a Montecitorio -. Riduzione delle tasse ai lavoratori dipendenti, salario minimo legato alla riforma della rappresentanza sindacale, parità salariale tra uomini e donne. E poi, una vera e propria agenda di transizione ecologica”.

Il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, non sembra comunque accordare l’ipotesi di un patto con i Cinquestelle, bensì un celere ritorno alle urne invitando il suo partito, tra cui Renzi, all’unità. Renzi, in un’intervista  al Corriere, ha a sua volta prefigurato un “governo istituzionale, il taglio dei parlamentari e il conseguente referendum”, auspicando in pratica un accordo di responsabilità tra tutti i partiti. A destra, invece, Forza Italia sembra scansare la Lega, si mira quindi a navigare su navi diverse e per ora non si intravede una spiaggia comune. “Non rinunciamo all’identità”, affermano i forzisti.

Arbitro della crisi sarà sempre e comunque il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. L’orizzonte delle scelte è, in buona parte, prerogativa del Colle, ancor di più se lo scenario si fa complicato. Il capo dello Stato potrebbe concedere un eventuale spazio ai partiti qualora in Parlamento sussistano delle possibilità concrete per formare una maggioranza alternativa, sulla base della quale formare un nuovo governo che sia in grado di sostenere il peso di questa ardua fase politica garantendo al Paese una certa permanenza a Palazzo Chigi.

Per quanto riguarda la riforma costituzionale che comporta il taglio di 345 parlamentari andrebbe eventualmente in vigore nella prossima legislatura (se non tra due), laddove si prevedono determinati tempi di attesa per eventuali richieste di referendum. L’ipotesi che la sfida politica si rifletta su una revisione così essenziale che modifichi in profondità le regole del Parlamento, lascia intravedere un sistema (politico) piuttosto sgrammaticato dal punto di vista istituzionale e degli equilibri tra poteri.

Approvare una riforma costituzionale con un Parlamento morente non sembra essere in sostanza una scelta oculata. Il disegno di legge costituzionale modifica gli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione e riduce i 945 parlamentari a 600: 200 senatori e 400 deputati. Per lo Stato comporterebbe un risparmio di circa cinquanta milioni di euro ogni anno. Essendo una riforma costituzionale, ossia che modifica la Carta, deve essere approvata da ciascun ramo del Parlamento con due distinte votazioni (doppia lettura), tra le quali devono intercorrere almeno tre mesi. Nella seconda deliberazione di ciascuna Camera è necessaria la maggioranza assoluta. Se la legge passa senza i due terzi dei voti delle Camere, come in questo caso, entro tre mesi dalla pubblicazione in Gazzetta ufficiale un quinto dei membri di ciascuna Camera, 500mila elettori o 5 Consigli regionali possono chiedere un referendum per confermare o meno la riforma.

A ottobre sarebbe ancora aperto il termine per chiedere il referendum, ma se si dovesse votare (in ottobre) il taglio dei parlamentari non sussisterebbe e quindi verrebbero di nuovo eletti 315 senatori e 630 deputati. Nel caso, invece, in cui il referendum non venisse richiesto si voterebbe non prima di febbraio 2020. Tutto ciò perché, scaduti i tre mesi per chiedere la consultazione popolare, dovrebbero intercorrere 10 giorni per la promulgazione della legge e altri 60 per la ridefinizione dei collegi. Se invece venisse richiesto il referendum i tempi si allungherebbero ulteriormente, dato che dovrebbero trascorrere ben 7 mesi e 10 giorni dall’ultimo voto alla Camera, ai quali si aggiungerebbero altri 10 giorni per la promulgazione e 60 per ridefinire i collegi. Urne quindi non prima di giugno.

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