Davos, la guerra trumpiana dei dazi

Mentre la first lady Melania ha cancellato per laconici motivi logistici il suo viaggio a Davos, nelle Alpi svizzere, Donald Trump raggiunge la sede dell’annuale World Economic Forum (WEF), surriscaldando subito l’ambiente. L’edizione 2018 dell’evento è particolarmente affollata da personalità di spicco della scena politica ed economica mondiale.

Gruppi di manifestanti hanno protestato contro il suo arrivo, appiccando qualche piccolo incendio nelle strade del centro montano. Niente a che vedere, comunque, con le devastazioni e le scorribande cui i Black bloc ci hanno abituato, in occasione di vertici di caratura internazionale. Tra l’altro, i contestatori di Davos, diversamente dagli attivisti che contrastano il globalismo con la violenza, hanno esternato disappunto per le politiche economiche di chiusura annunciate dall’amministrazione Trump.

L’intervento del presidente statunitense è previsto a ridosso della conclusione di oggi del Forum, ma già parlano per lui gli annunciati provvedimenti di pesante tassazione su prodotti provenienti dal mercato asiatico, fra cui i pannelli solari cinesi e gli elettrodomestici dell’alleato sud-coreano. Il prossimo passaggio potrebbe riguardare anche i settori strategici di acciaio e alluminio.

Sul tema, si esprime in modo chiaro il premier indiano Narendra Modi, bollando l’isolazionismo economico di Trump come una minaccia non meno preoccupante dei cambiamenti climatici e del terrorismo. Gli fa eco la cancelliera tedesca Merkel, sottolineando che le risposte alle guerre della storia si basano su cooperazione e multilateralismo. Si unisce al coro il primo ministro italiano Gentiloni, sostenendo quanto il protezionismo economico, inizialmente vantaggioso per il singolo Paese, divenga alla lunga deleterio per l’economia generale e costituisca un freno alla crescita. Anche Macron si allinea ai suoi omologhi stranieri, fresco di una mossa preventiva da ex banchiere d’investimento che – alla vigilia di Davos – ha attratto, nella sontuosa cornice della Reggia di Versailles, circa 140 manager di multinazionali e grandi imprese, per illustrare i vantaggi di scegliere la Francia. Alla faccia delle chiusure.

Tutte stoccate al trumpiano cavallo di battaglia “America first!”. Non fa eccezione il premier canadese Justin Trudeau, dopo l’abbandono dei negoziati di Tokio sul trattato commerciale Trans-Pacifico (TTP) da parte dell’inquilino della Casa Bianca: “Il nuovo accordo, siglato da 11 Paesi, assicurerà benessere e occupazione anche senza gli USA”, ha dichiarato Trudeau. Insomma, uno contro tutti e tutti contro uno, tanto per citare all’inverso il Dumas dei Tre Moschettieri.

Nel frattempo, a difesa delle decisioni dello Studio Ovale, il segretario al Tesoro americano Steven Mnuchin esclude vi siano incoerenze nel blindare l’economia americana e contestualmente collaborare sotto il profilo commerciale con gli altri Paesi. Nonostante le apparenze, dunque, Washington sarebbe assolutamente favorevole al libero scambio; in realtà, a seguito dell’aumentata imposizione fiscale su merci asiatiche, il segretario al Commercio Wilbur Ross non nasconde la possibilità di ritorsioni cinesi, ma la cosa – afferma – fa parte del gioco. La guerra dei dazi è appena cominciata.

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