Natale, rito ancestrale

Natale cristiano. Natale consumistico. Il Natale dell’essere più buoni e il Natale di chi vorrebbe compiere attentati. Il Natale è una celebrazione solstiziale degli umani boreali, che colonizzazioni e globalizzazione hanno portato fino al Terzo Mondo australe. Un momento forte che da sempre è ritualizzato, e che oggi poteri di vario genere cercano di segnare, bonariamente o drammaticamente, col proprio marchio. I giorni dell’anno che stiamo vivendo non sono infatti giorni come gli altri per gli appartenenti alla specie umana: sono i giorni del Solstizio d’inverno, che segna la fine della diminuzione della luce solare nell’emisfero nord del pianeta ed il riprendere ad allungarsi delle giornate, e quindi il ritorno della Vita sulla Terra, che all’energia solare è dovuta. Per questo sono giorni che l’uomo celebra da sempre, spiegando e regolando attraverso miti e riti gli istinti e le pulsioni del suo essere animale. Un breve excursus nelle grandi civiltà urbane – solo in queste perché sono le uniche ad aver lasciato fonti e documenti – può dare un’idea delle celebrazioni più antiche legate a questo periodo dell’anno.

Nei giorni del Solstizio, in Egitto si celebrava la nascita del dio Horus, che tra gli altri epiteti aveva quello di ‘Sole che si leva a Oriente’. A Babilonia, si celebrava il dio-Sole Shamash, l’Utu dei Sumeri, e in Persia intorno al Solstizio si festeggiava la nascita del dio Mitra. Negli odierni Afghanistan, Azerbaigian e Turkmenistan si celebrava la nascita del profeta Zarathustra. Secondo la tradizione Mahayana, questi sono i giorni della ‘nascita spirituale’, attraverso l’illuminazione, di Buddha. Ancora: la tradizione indù attribuisce ai giorni del Solstizio anche la nascita del Krishna. A Petra si celebrava la nascita del dio-sole Dusares, poi ‘grecizzato’ in Helios. Nell’America precolombiana, si celebrava la nascita del dio degli Aztechi Huitzilopochtli, e del dio Bacan nello Yucatan. Nell’Europa del Nord si festeggiava la nascita del dio Freyr, figlio di Odino e di Freya. A Stonehenge il Solstizio astronomico. Al centro sempre significati collegati alla rinascita, materiale o spirituale, e al sole. Che ‘rinasce’ appunto, con il Solstizio.

In Grecia, e a Roma, la ‘rinascita’ del ciclo solare era sentita come ‘catarsi’: la Grecia dedicava infatti i giorni intorno al Solstizio d’inverno alle Lenee, feste di Dioniso, dio della catarsi e quindi del rinnovamento; e nell’antica Roma, per volere dell’imperatore Aureliano, dal 274 d.C. si celebrò il Dies Natalis Solis Invicti, ‘giorno della nascita del sole non-vinto’ (dalle tenebre crescenti dell’autunno); e lo si fece in conclusione dei Saturnali, festa anch’essa catartica, dedicata al rinnovamento della vita sociale come di quella della Natura.

E oggi? Il Natale cristiano, lo ricordiamo, non è fissato al 25 dicembre dai Vangeli: lo fu dall’imperatore Costantino, che dalle celebrazioni del 330 d.C. lo ‘affiancò’ al Dies Natalis Solis Invicti. Nel 337 papa Giulio I ufficializzò la data per la Chiesa. Il Natale di Cristo, coincidente con i culti del Solstizio così importanti per le popolazioni dell’Impero, ebbe larga diffusione anche grazie a questa ‘coincidenza’: non un fatto positivo ma un problema visto con altri occhi, se nel 460 il papa san Leone Magno scriveva della ‘mentalità pagana’ per la quale i cristiani, prima di entrare in San Pietro, si inchinavano a salutare il sole. Fatto considerato negativo, stigmatizzato per altri versi anche dai protestanti: la Riforma condannò la scelta di Roma di aver ‘ceduto’ al paganesimo sovrapponendo il Natale di Cristo a quello del Sole.

Oggi il Natale cristiano è portatore del valore del rinnovamento della vita, rappresentato dal Bambino: e di quello dell’umiltà e della semplicità, quello della nascita nella grotta e fra i pastori, simboleggiato nel presepio, realizzato per la prima volta da San Francesco. Nei secoli, il Cristianesimo europeo si è arricchito di simboli natalizi come l’abete, sempreverde, e quindi segno di ‘non-vincibilità della vita’ fin dalla notte dei tempi: sacro ai Celti, agli Scandinavi, e anche ai Greci, che nel Peloponneso erano giunti proprio dal Nord. Nella terra dell’ulivo, l’abete è presente sull’Olimpo ed era sacro ad Artemide, dea della Natura protettrice – coincidenza – delle nascite. In onore di Artemide si sventolavano rami di abete; e lo si faceva, altra coincidenza, proprio durante le feste dionisiache. Oggi l’Albero campeggia anche in piazza San Pietro, portato dal papa dell’Europa, venuto dal Nord, Carol Wojtyla.

Ma Babbo Natale? Originata di recente e con funzione commerciale – il vestito rosso ad esempio caratterizza Santa Claus solo nel 1915 nella pubblicità dell’americana White Rock Beverages e viene ripreso nella pubblicità della Coca Cola negli anni Trenta – la figura di Babbo Natale e dei regali, che per molti ‘sono’ oggi il Natale stesso, al Natale è stata abbinata solo, appunto, nel Novecento. Nato nel XVII secolo dall’olandese Sinterklass, personaggio fantastico portatore di regali ai bambini ‘ricavato’ da Sint Nicolaas, e anglicizzato Saint Nicholas, nel Novecento ‘Santa Claus’ ha svelato ai pubblicitari le potenzialità del personaggio: un simpatico e bonario portatore di regali, guarnito di tutti i particolari – il colore rosso, la barbona ovattata, l’aspetto da simpatico nonno – necessari per suggerire che l’acquisto è cosa buona e giusta. Per favorire gli acquisti mancava però una festa grande quanto i mercati, una festa che nel mondo che il commercio poteva raggiungere fosse più nota e celebrata di San Nicola, o dell’Epifania, anch’essa portatrice di doni ai soli bambini: quale migliore evento del vicino Natale? E voilà Babbo Natale, e la moda dei regali natalizi, arrivata da noi col boom economico del secondo Dopoguerra.

Quel che i pubblicitari, consigliati dagli psicologici, avevano capito, è che nell’animale-uomo l’avvicinarsi del Solstizio è preceduto dalla corsa all’accumulo di provviste prima dell’inverno, comportamento comune a tutti i mammiferi. La corsa ai regali di Natale avrebbe potuto utilizzare a fini commerciali questa pulsione ancestrale. Ma avrebbe potuto fare di più: collocata in questo periodo dell’anno, avrebbe potuto sfruttare anche la solidarietà intraspecifica sollecitata dalla ‘calamità-inverno’, per far produrre ai consumatori un accumulo ulteriore (quello per i propri consimili: nella forma del regalo natalizio, appunto). E’ possibile che ai pubblicitari fossero noti, fra l’altro, studi come quelli degli antropologi Franz Boas e Marcell Mauss sul rito del potlatch’ dei nativi americani: una cerimonia celebrata anch’essa intorno al Solstizio d’inverno e durante la quale le tribù – agiate – dei Kwakiutl, dei Salish, degli Haida, dei Lingit, dei Tsimshian e dei Nuu-chah-nulth della costa pacifica settentrionale distruggevano o regalavano l’eccesso di beni, che però nel periodo autunnale avevano accumulato in abbondanza proprio per l’occasione. Perché gli Occidentali ‘civilizzati’ non avrebbero dovuto comportarsi nello stesso modo? In fondo, tutto rientrava nell’idea di un’economia mirata alla ‘crescita’, che è legata al surplus. E allo spreco: che nella forma del regalo sarebbe stato, però, ‘moralizzato’.

Uno spreco che oggi trionfa anche sulle tavole, nei cenoni che avevano senso quando si mangiava solo nelle feste comandate, ma che oggi, nella civiltà ossessionata dal ‘food’, alimentano i rifiuti. Così è, almeno per una parte degli Occidentali. In fondo, se è vero che da sempre in questi giorni ogni parte dell’umanità celebra il suo dio, non c’è da stupirsi che oggi a Natale alcuni festeggino il dio-denaro. Un dio senza luce, né spirito né ragione, che però risponde, in chiave moderna, all’istinto ancestrale dell’accumulo. Perché l’uomo non è nato ieri, o cento, o mille anni fa: noi Sapiens – per limitarci alla ‘variante’ ominide alla quale apparteniamo, ‘dimenticando’ quelle dalle quali deriviamo – abbiamo duecentomila anni, forse addirittura trecentomila. Dell’eredità di questo tempo così lungo fa parte l’istinto dell’accumulo. Ma anche quello di cercare il sole.

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