Cronache dai Palazzi

Ventilata la crisi di governo, dopo l’elezione del presidente della Commissione Affari costituzionali non in linea con il patto di maggioranza, si prova a tornare alla normalità con l’ex premier Matteo Renzi che afferma: “Non voglio sentire la parola crisi” e assicura di stare dalla parte dell’esecutivo.

Dopo l’elezione di Salvatore Torrisi, centrista di Ap – che ha battuto con 16 voti a 11 il candidato ufficiale del Pd Giorgio Pagliari conquistando la poltrona di presidente della Commissione Affari costituzionali – la porzione renziana del Partito democratico non risparmia parole durissime come “patto di lealtà venuto meno tra alleati o “vulnus gravissimo nella maggioranza”. Nel mirino oltre i centristi di Ap anche i bersaniani di Mdp. Il presidente del Pd, Matteo Orfini, ha chiesto un incontro al Capo dello Stato, ma senza risposta.

Cosa c’è comunque dietro il risultato Torrisi occorre chiederselo. La commissione Affari costituzionali dovrà occuparsi anche della nuova legge elettorale e l’accaduto assomiglia ad un pretesto per far emergere una riforma di voto praticamente diversa dall’Italicum, magari sostanzialmente proporzionalista.

Alfano ha assicurato  che i suoi sono stati “leali” come sempre e ha puntualizzato: “Se qualcuno cerca pretesti per far cadere il governo e andare al voto anticipato, lo dica chiaro”. Rispetto al nuovo presidente della commissione Affari costituzionali che ha rifiutato di dimettersi (richiesta di Alfano) dal suo nuovo incarico il leader del Nuovo centrodestra ha invece aggiunto: “Prendo atto della scelta di Torrisi. Amen. Ha scelto la sua strada. Non rappresenta più Ap”. Su questa storia Matteo Renzi, pur manifestando la volontà di andare avanti, ha inferto il colpo di grazia: “La discussione su un episodio grave e profondamente antipatico non può far tornare il linguaggio a quello della Prima Repubblica. Noi la parola crisi di governo non la vogliamo sentire”. In sostanza “i giochini contro il Pd al Senato non vanno confusi con l’azione del governo, che va sostenuta e difesa”, ha dichiarato Matteo Renzi. Ora però sia il fronte che ha votato Torrisi “a fare una proposta di legge elettorale” ha ammonito Matteo Renzi. La tensione quindi resta alta.

“La Prima Repubblica ci ha fermato come ci ha fermato anche in Commissione sulla riforma elettorale”, è stato il commento duro elaborato dall’area renziana del Pd che comunque deve cercare di attutire il colpo o, qualsivoglia, digerire la partita.

Renzi, a sua volta, non nasconde eventuali “conseguenze” a proposito di riforma elettorale e preannuncia uno stop al proporzionale. In definitiva i renziani non appoggiano una legge proporzionale anche perché, rispetto a Palazzo Madama, a Montecitorio i numeri sono diversi e una struttura di tipo proporzionale “non passerà mai e poi mai”. Comunque la vicenda Torrisi anche se non avrà ripercussioni sostanziali sul governo inciderà sulla situazione politica. “Il vulnus resta ed è grave. È una pietra di inciampo sulla legge elettorale”, assicura Lorenzo Guerini.

In favore della stabilità di governo si schiera anche il premier Paolo Gentiloni che da Firenze afferma: “In questo momento così delicato per il nostro Paese e per il mondo, la richiesta che viene dai cittadini alle istituzioni è quella di essere rassicuranti”. Del resto una eventuale crisi senza una nuova legge elettorale più che a elezioni anticipate porterebbe ad un governo tecnico.

In questo frangente sul Pd pesa anche la fase precongressuale e fino al 30 aprile non mancherà il “fermento”, come intuito anche dal Quirinale. Il presidente della Repubblica chiamato in causa a ridosso della vicenda Torrisi ha, a sua volta, risposto rilanciando la moral suasion. In sostanza Sergio Mattarella prende le distanze dai partiti e ribadisce che senza una nuova legge elettorale, in grado di armonizzare i sistemi di voto di Camera e Senato e di rendere fluidi i resti dell’Italicum non bocciati dalla Corte costituzionale, non si andrà alle urne. Considerando il vulnus politico il Colle sembra aver suggerito l’ipotesi di un accordo tecnico “al minimo” da trasformare addirittura in un decreto legge. La parità di genere nelle liste, la definizione dei collegi per il Senato, una selezione dei candidati per evitare sorteggi sono i punti fermi del suddetto accordo tecnico “al minimo”. La riflessione dovrà però far convergere le diverse posizioni e portare ad una comune visione della riforma del sistema di voto, ciò che di sicuro rappresenta la cosa più difficile da realizzare. La discussione condivisa dovrebbe inoltre (e non come ultima cosa) riflettere sul tema delle soglie di sbarramento e dei premi di maggioranza. Il capo dello Stato ha più volte ribadito che “gli strumenti per determinare la rappresentanza devono essere compatibili e omogenei” e ha invocato, in più occasioni, il senso di responsabilità – richiamando quindi le diverse parti politiche all’ordine – in quanto questa è l’unica strada per garantire un certo livello di sicurezza e per cercare di recuperare una buona dose di fiducia nel rapporto tra politica e cittadini.

A proposito di fiducia il vero problema della maggior parte dei cittadini italiani è di natura economica. Il Rapporto sulla finanza pubblica della Corte dei conti denuncia un peso delle tasse che è arrivato a schiacciare l’attività economica,  creando “limiti e distorsioni”. La pressione fiscale al 42,5% è tra le più altre dell’Unione europea e l’incidenza fiscale complessiva sulle medie imprese italiane è del 68,4%, ossia 25 punti al di sopra della media europea. Il semplice cuneo fiscale che pesa sulla busta del singolo lavoratore è del 49% ed eccede anch’esso di 10 punti la media Ue. Altra stortura all’italiana è rappresentata dalle agevolazioni fiscali – detrazioni, agevolazioni e trattamenti di favore che la Corte dei conti incoraggia a tagliare – che corrispondono a 8 punti di Pil, mentre la media europea è 2,5 punti. “L’esigenza di ridurre la pressione fiscale non è mutata, ed è un obiettivo raggiungibile solo attraverso un ridimensionamento della spesa”, assicurano i contabili.

In  definitiva il giudizio della Corte dei conti non è però del tutto negativo dato che, premesse alcune incertezze per lo più sistemiche per il nostro Paese, sembra esserci stata una “inversione di marcia verso un’espansione meno fragile e più qualitativa”, come scrive la Corte nel Rapporto. Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan conferma la spinta alla crescita che “ha ripreso vigore”. Per il 2017 “ci sono segnali molto incoraggianti”, ha spiegato il ministro ribadendo l’impostazione della prossima manovra messa a punto dall’esecutivo. “Il governo lavora al progressivo consolidamento dei conti con un sostegno ai redditi e all’occupazione”.

Per la Corte dei Conti il vero macigno che grava sull’economia italiana resta comunque il consistente debito pubblico e per stanarlo è necessaria la crescita. Le privatizzazioni, nonostante le partecipazioni ammontano a 94 miliardi, “non potranno offrire un contributo determinante”. Un’ulteriore nota stonata sarebbe la sanità, anche se i “buchi” della spesa regionale non sono più quelli del passato e il sistema è stato in grado di “assorbire inefficienze e squilibri”. Restano però ritardi, inefficienze e cresce la spesa privata dei cittadini per la sanità, nonostante per alcuni non sia facile sostenerla. “L’attuale struttura di assistenza sanitaria” sembra non essere “sufficiente a rispondere ai bisogni di una popolazione sempre più anziana, affetta da cronicità e con oltre 2,5 milioni di non autosufficienti”.

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