Considerazioni su un Referendum fallito

In vista del referendum del 17 aprile, avevo scritto che sarei andato a votare (ma non ho potuto farlo: la scheda di voto non è mai arrivata al mio attuale domicilio all’estero) e avrei votato, anche se con non poche perplessità, per il Sì. Gli italiani hanno scelto diversamente. Sommando le astensioni  e i No, si vede che più del 70% ha scelto di lasciare le cose come sono.

L’on. Potito Salatto ha espresso molto bene su queste colonne la sua disillusione per la scelta astensionistica. Sono completamente d’accordo con lui. Decidere di non decidere, non servirsi delle armi che la democrazia pone in mano a ciascuno è triste e sbagliato.

Poiché però non voglio pensare che in Italia la democrazia sia morta, vorrei tentare di individuare una possibile attenuante. Nella mia precedente nota, avevo espresso molte incertezze sul tema delle trivellazioni. Gli argomenti delle due parti si bilanciavano, e la campagna precedente al referendum, di cui ho cercato di seguire gli sviluppi almeno nei dibattiti televisivi, non ha chiarito molto le cose. In più, non mi è parso che fossero in gioco interessi davvero vitali per tutti. L’avevo  scritto e lo ripeto: avrei votato Sì per istinto, per amore al nostro Bel Paese, non per una convinzione ragionata. Se questo accade a una persona di cultura universitaria e non proprio estranea alle vicende della politica e dell’economia nazionali (mi sia perdonata l’immodestia), come può non accadere a tanta gente, estranea ad esse, preoccupata delle propria vita individuale e non sempre in grado di capire e decidere tra il giusto e lo sbagliato? L’esperienza repubblicana mostra con chiarezza una dato: quando si tratta di temi sentiti come vicini alla vita e agli interessi di tutti, e in cui in più le opzioni sono chiare, la gente a votare ci va. Ricordo bene il referendum sul divorzio, o i due sul nucleare, che videro una partecipazione massiccia di elettori, e ne ho presenti molti altri, su temi secondari, in cui il quorum non è scattato.

Perché? Sommessamente penso che, in quei casi come nel caso delle trivellazioni, le ragioni, al di là dell’ovvio distacco di tanti dalla politica, al di là dalla scelta di comodità di non perdere il prezioso tempo domenicale recandosi ai seggi, stiano in due fatti: un disinteresse sentito per la questione oggetto del referendum e la difficoltà di sceverare fra le opposte ragioni. Ha pesato il consiglio di Renzi a non votare? Probabilmente sì ma, credo, in parte non decisiva. Non credo che gli italiani abbiano portato – come si diceva in altri tempi – il loro cervello all’ammasso. Non credo che l’autorità del Presidente del Consiglio sia sufficiente a determinare le loro scelte. Accadde forse una sola volta, con Craxi, con il referendum sulla scala mobile, ma erano altri tempi. No, la ragione deve essere un’altra. Io credo che lo strumento referendario sia di somma importanza, ma che proprio per questo non vada sprecato per questioni minori e di difficile comprensione. Noto peraltro che tra le riforme costituzionali recentemente votate vi è l’eliminazione del requisito del quorum per referendum richiesti da più di 800.000 persone. È una norma che non condivido, ma che dovrebbe rassicurare i difensori della sovranità popolare e mi pare strano che nessuno di loro lo riconosca.

Veniamo ora agli aspetti più “politici” della vicenda. Avevo scritto, e ripeto, che sarebbe stato molto più corretto per il Governo, invece di consigliare l’astensione, spiegare in tutte lettere le ragioni che, a suo avviso, militavano per il No. Avrebbe potuto farlo separando comunque il risultato da ogni conseguenza politica. Accadde con Berlusconi, che rimase al potere (anche se per non molto tempo) dopo i secchi No al nucleare e alla privatizzazione delle acque pubbliche. Renzi ha scelto un’altra strada. Prendiamo atto che la sua scommessa (sbagliata) è riuscita vincente. In questa luce, appaiono davvero patetiche e indecorose le reazioni dell’opposizione, da SI alla Lega, passando per  FI e 5 Stelle. Avevano strepitato che, se ci fosse stato il quorum, Renzi doveva andarsene a casa. Grillo aveva addirittura minacciato (o promesso?) di darsi fuoco se il quorum non ci fosse stato. Hanno trasformato loro un referendum tutto sommato tecnico in prova di forza contro il Governo. Il Governo, cifre alla mano, l’ha vinta. Le opposizioni, tutte insieme, hanno raccolto meno del 28% (al quale va comunque sottratta una quota, grande o piccola che sia, che ha votato Sì per convinzione). Insomma, una figuraccia. Ma invece di starsene zitti, ora strepitano che è stato un trionfo, che 14 milioni di italiani hanno votato contro Renzi e così via. Strano ragionamento: se si interpretano come “antirenziani” tutti quei voti, è giocoforza interpretare come “renziani” tutti gli altri, cioè più di 30 milioni. Cosa che non credo sia. Ma, come ha scritto saggiamente Potito Salatto, in Italia non ci sono mai perdenti!

Poco serie sono anche le iniziative ora preannunciate di ricorsi al Ministro dello Sviluppo Economico o addirittura all’Unione Europea, per entrare dalla finestra quando la porta è stata sbarrata. Questi alfieri della democrazia e della volontà popolare hanno posto, legittimamente, un quesito al popolo sovrano,il quale ha parlato. Non come molti di noi, a cominciare da me, auspicavamo. Ma ha parlato. Non resta che rispettare la sua parola. E magari rimandare la partita al referendum sulle riforme istituzionali, che è cosa ben più seria (e per la quale non serve neppure il quorum). Tutto il resto è vana agitazione psicomotoria.

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