La Turchia e la NATO

Ho più volte scritto che l’atteggiamento della Turchia nei confronti della minaccia dello Stato Islamico era quanto meno tiepida, se non compiacente. Si sa per esempio che per molto tempo guerriglieri dell’IS sono passati in Siria attraversando la frontiera turca, ovviamente con la tolleranza di quelle autorità. E le truppe turche sono rimaste inerti quando divampava molto vicino a quella frontiera, nella città siriana di Kobane, una furiosa battaglia tra l’IS e i peshmerga curdi.

Ora si direbbe che il Governo di Ankara abbia cambiato atteggiamento. La tolleranza verso il fanatismo islamista non è stata ripagata e l’IS ha condotto pesanti attentati in suolo turco: quello di Suruc, in una zona per lo più abitata da curdi, ha provocato oltre trenta morti e un centinaio di feriti. Ankara non poteva non reagire, soprattutto per le pressioni di un’opinione pubblica che reclama una maggiore sicurezza. E lo ha fatto in tre modi: con attacchi aerei sulle postazioni dell’IS, consentendo agli Stati Uniti l’uso della base aerea di Incirlic per condurre i loro raid, e arrestando oltre cinquecento esponenti della jihad sul proprio territorio. Siamo di fronte a una vera e propria svolta, che augura un impegno diretto della Turchia (massima potenza militare nella Regione) contro lo Stato Islamico dove più conta, cioè sul terreno? È bene essere prudenti. In un lucidissimo editoriale sul Corriere della scorsa settimana, Sergio Romano parla, non senza buoni argomenti, di “ambiguità turca”. Notando che, se è vero che quello che è in corso nel Medio Oriente è uno scontro tra sciiti e sunniti, la Turchia, in grandissima parte sunnita, difficilmente può schierarsi dall’altra parte, specie se questa parte fa riferimento all’Iran, altra potenza regionale con vocazione di predominio.

Ma l’aspetto più incongruente del comportamento turco – sono anche in questo d’accordo con Romano – sta nel fatto che, assieme all’attacco all’IS, la Turchia ne ha condotto uno, altrettanto pesante, contro le posizioni militari curde. Le ragioni sono note: tra curdi e turchi pareva essersi stabilita una precaria convivenza, e più di ottanta deputati curdi siedono nel  Parlamento di Ankara (a causa loro il Presidente Erdogan vi ha  perduto la  maggioranza.) Ma da quando i curdi hanno ottenuto una  propria autonomia in una parte dell’Irak, e da quando sono diventati protagonisti della lotta contro la jihad, le loro ambizioni sono aumentate e obiettivamente rappresentano una minaccia per l’integrità territoriale della Turchia. Ma il fatto è che i curdi sono i soli, forse in parte con le milizie iraniane, a battersi con valore ed efficacia contro la jihad, i soli che hanno ottenuto qualche successo. Attaccarli significa indebolirne la capacità bellica e quindi minare lo sforzo per contenere e alla fine vincere quel nemico che ora i Turchi mostrano di considerare anche proprio. Potremmo scrollare le spalle e limitarci a considerare quanto siano complesse le cose in quella parte del mondo e quanto le cose vi siano raramente quello che appaiono. Ma la vicenda dello Stato Islamico e il ruolo che può svolgervi la Turchia, sono cose troppo serie per liquidarle con sufficienza.

L’IS è oggi, per riconoscimento dell’Intelligence americana (e occidentale in generale) la minaccia più grave per l’Occidente, del quale la Turchia è alleata nella NATO. L’Alleanza, nacque nel 1949 per proteggere l’Europa Occidentale e la stessa Turchia dalla minaccia sovietica. Ha ripreso parte del suo ruolo originale di fronte alle mosse espansioniste  della Russia di Putin. Ma negli ultimi quindici anni si è occupata soprattutto di Medio Oriente, identificando in quell’area la zona di maggior pericolo. Se la Turchia vuole restare membro della maggior organizzazione di difesa collettiva dell’Occidente (e del mondo) non può non tenerne conto. Che le Autorità di Ankara abbiano il diritto di prevenire o reprimere a casa propria eventuali attentati o altre attività illecite dei curdi, nessuno può contestarlo. Ma bombardare le postazioni curde in Siria e in Irak è tutt’altra cosa, incompatibile con gli interessi e la politica occidentali.

D’altra parte, la stessa Turchia ha richiesto una discussione alla NATO sulla questione. Lo ha fatto sulla base dell’art. 4 del Trattato di Washington (che prevede consultazioni nel caso che una parte ritenga minacciata la propria sicurezza e integrità territoriale), non dell’art.5 (che prevede il caso di aggressione in atto contro una delle parti). Certo,  gli Alleati occidentali devono comprendere i problemi turchi e farsene in parte carico (come avvenne quando la Turchia si sentì minacciata dall’Irak di Saddam Hussein) ma hanno anche il dovere di dire loro chiaramente che, se oggi l’IS rappresenta un pericolo per tutti, e vari Paesi occidentali sono impegnati a combatterlo, il ruolo dei curdi in questo sforzo è cruciale. Indebolirne l’azione è dunque, non solo contraddittorio, ma direttamente lesivo di un interesse comune: sconfiggere le forze del fanatismo che minacciano la civiltà democratica e laica. E ai curdi, che beneficiano di simpatie e appoggi occidentali (anche italiani), si ha altrettanto diritto e ragione di dire che, mentre combattono il loro principale nemico, quello che vuole distruggerli, devono astenersi dal pianificare o attuare azioni contro la Turchia. Insomma, se oggi c’è un nemico comune, la cui minaccia è da tutti compresa, tutti quelli che lo combattono hanno il dovere e l’interesse di unire le loro forze. Altrimenti non si farà che aumentare il caos che fin qui ha prodotto solo disastri.

©Futuro Europa®

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