Sindacato e politica

Lo sciopero generale di venerdì, pur non essendo stato quel successo assoluto che la CGIL si aspettava, ha comunque dimostrato il potere di mobilizzazione dei sindacati. Potere che è stato, ancora una volta, molto mal impiegato. In una fase difficilissima della nostra economia, il ruolo del Sindacato dovrebbe essere, com’è ad esempio in Germania, quello di collaborare responsabilmente per la ripresa dell’economia e dell’occupazione, non di danneggiare il Paese colpendone le attività produttive e arroccandosi sulla difesa cieca di interessi acquisiti: occupati contro occupandi, chi il lavoro ce l’ha contro chi, in queste condizioni, non l’avrà forse mai.

Ma, al di là di questa evidente violazione dell’interesse nazionale e dei lavoratori in generale, c’è un problema di metodo: il sacrosanto diritto allo sciopero è concepito ed è efficace per la difesa di interessi specifici, sia salariali che di condizioni di lavoro. Ma uno sciopero generale con obiettivi generici  costituisce un grave abuso. Per cosa scioperavano i sindacati? Per la politica del lavoro del presente governo? Ora, essa può essere ampiamente discussa, ma due considerazioni vanno fatte. La prima: il DDL parzialmente approvato dal Parlamento costituisce un’indicazione di intenzioni, alcune delle quali, del resto, perfettamente conformi agli interessi dei lavoratori e per un’altra parte, la piú contestata, intesa a favorire l’occupazione flessibilizzando le regole sul licenziamento; un’eventuale protesta  dovrebbe appuntarsi sulle norme concrete che il Governo emanerà in attuazione del DDL. Allora si potrà vedere se diritti fondamentali siano stati veramente colpiti. Ma al di là di questo, è importante una seconda considerazione: definire la politica economica e del lavoro è, in una democrazia rispettosa della Costituzione, responsabilità e prerogativa di Governo e Parlamento, a cui spetta la mediazione complessiva tra interessi che possono essere contrapposti e non delle corporazioni, padronali o sindacali. Ad esse spetta suggerire, discutere, se del caso criticare, ma l’ultima parola spetta al Parlamento. Ed è da sperare che Governo e Parlamento, come ha anticipato il Ministro del Lavoro Poletti, vadano avanti per la loro strada e le opposizioni responsabili non cerchino di profittare delle difficoltà attuali per creare altri problemi a chi governa, su un tema che dovrebbe trovare anche loro concordi.

Ma l’insieme delle considerazione fatte piú sopra conferma una squallida realtà. Diciamolo con chiarezza: lo sciopero generale di venerdí costituiva un atto politico, non sindacale, un atto diretto contro il Governo e l’attuale maggioranza e volto a farli cadere.  E come tale sfiora l’assurdo. Fino a prova contraria, il Governo è l’espressione del PD, partito che si dovrebbe riotenere  vicino ai lavoratori, ed è guidato da chi ha vinto le primarie interne a quel partito. Attaccarlo, cercare di distruggerlo, è l’ennesima prova di quella pulsione suicida che da tanto tempo pervade la sinistra radicale: quella incapace di governare e di lasciar governare, capace solo di fare chiasso e arroccarsi su slogan e illusioni che la Storia ha irrimediabilmente condannato. Cosa si propone la signora Camusso? Cosa si propongono i vari Fassina, Cuperlo, Vendola, gli eterni sconfitti, gli eterni piagnoni? Non si rendono conto che, se fallisce l’esperimento riformista di Matteo Renzi, il futuro non sarà della sinistra radicale ma di un ritorno della destra, o peggio? Davvero si trovano a loro agio solo nell’opposizione cieca? Davvero non sanno fare altro che sfasciare?

Una parola su Massimo D’Alema. Ho avuto per lui, nel tempo, stima e amicizia. Prese la guida dei Democratici pugnalando alla spalle il povero Occhetto, ma aveva ragione lui. Lo ricevetti alla NATO e in Argentina da Segretario dei Democratici e poi da Presidente del Consiglio, e ne apprezzai l’atlantismo che si manifestò nella coraggiosa decisione di partecipare all’azione contro Milosevic per il Kossovo. Come Premier, però, ebbe la sua grande opportunità e la disperse. Forse fu piú che altro sfortunato. Andò a Palazzo Chigi a seguito di una manovra favorita da Cossiga per far cadere Romano Prodi: un altro tradimento,  perpetrato stavolta nel miglior stile della vecchia DC, e fu a sua volta vittima di un tradimento nel suo partito, attuato dai veltroniani dopo la sconfitta alle regionali.  Nel 2006 dovette toccare con mano il rifiuto  dei suoi compagni a mandarlo al Quirinale o anche alla presidenza di Montecitorio. Ma come  Ministro degli Esteri si mosse bene, soprattutto nella crisi del Libano. Se un difetto mi pareva da rimproverargli, era una certa sicumera, uno sprezzo degli altri, un concetto non proprio modesto di sé stesso, ma sono caratteristiche abbastanza comuni tra politici e altri protagonisti della vita pubblica. Per il resto, lo ritenevo e continuo a ritenerlo persona lucida e realista (lo dimostrò cercando, molto prima di Renzi, un accordo riformatore con Berlusconi, e poi ribellandosi contro chi definiva “inciucio” quello che, in ogni democrazia normale, è il semplice e necessario dialogo tra le parti sui temi fondamentali).

Che tristezza vederlo ora sfilare con gli scioperanti, imbiancato nei capelli ma non quietato, alla ricerca di una popolarità e di un peso ormai svaniti!  Ma perché da noi gli sconfitti, chi ha avuto la propria ora e l’ha persa, non si fanno da parte mai?

©Futuro Europa®

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