
Quando in ogni città c’erano le canne
C’erano una volta città dove la misura non era solo un fatto di lunghezza, ma di giustizia. Dove prima ancora del sistema metrico decimale, che sarebbe arrivato con la razionalità francese e l’uniformità napoleonica, le distanze si calcolavano con ciò che ogni comunità riconosceva come proprio. Non esisteva un metro, ma esistevano le canne. E ogni città aveva la sua.
Voler imporre parametri o stabilire con precisione quanto misurasse una canna non era una mania di controllo, ma una necessità vitale per la convivenza civile e per l’economia locale. In un tempo in cui non esisteva un sistema unitario nazionale, né tantomeno un’autorità centrale internazionale indiscussa, ogni città aveva il dovere di rendere visibile, pubblico e incontestabile il proprio standard di misura.
Era una forma di garanzia giuridica: ciò che oggi faremmo con una firma digitale o con un notaio, allora si faceva incidendo la misura nella pietra. I mercanti, i muratori, i contadini e gli artigiani sapevano esattamente quale fosse la lunghezza di una canna a Firenze o a Napoli, e sapevano che quella misura valeva solo lì, ma valeva per tutti, senza discussioni. Era, in fondo, un modo per rendere il diritto tangibile, per non lasciare spazio ad abusi o fraintendimenti. La canna locale era certezza, era fiducia, era la condizione per fare scambi in un mondo dove ogni chilometro poteva cambiare regole e rapporti di forza.
Le chiamavano canna fiorentina, canna palermitana, canna napoletana, canna romana, canna volterrana, canna genovese, canna sarda, canna lucchese. Tutte con lo stesso nome, ma tutte con misure diverse. Un’Italia dove non ci si accordava su nulla, ma tutto funzionava con coerenza interna. La canna fiorentina, ad esempio, misurava circa 2,3 metri. Quella napoletana era più corta, attorno ai 2,06 metri. La palermitana, usata anche nei lavori agricoli e nelle costruzioni, oscillava intorno ai 2,1 metri, mentre la romana superava i 2,2. La canna milanese arrivava a quasi 2,6 metri, rendendo ogni scambio tra regioni una partita a scacchi tra misure diverse.
E poi c’era lei, la canna volterrana, ancora oggi incisa sulla facciata del Palazzo dei Priori a Volterra: 2,52 metri, suddivisi in quattro braccia da 63 cm e dodici once. Non un simbolo decorativo: un riferimento pubblico, incastonato nella pietra, per permettere a mercanti e muratori di misurare con giustizia. Perché ogni città, nel suo orgoglio civico e nella sua autonomia giuridica, aveva diritto a stabilire da sé la misura delle cose.
Era un’Italia di campanili e di consuetudini, in cui persino il metro – prima di diventare metro – parlava con accenti diversi. Le unità erano locali, ma erano trasparenti: scolpite sui muri, visibili a tutti, in una sorta di proto-democrazia della misura. Era una forma di diritto accessibile e fisico, concreto. Nessun algoritmo, nessuna app. Solo pietra, tempo e responsabilità.
Poi arrivò la Rivoluzione. Quella francese. E con essa il metro. Nel 1795 si stabilì che una volta per tutte l’unità di misura fosse la dieci-milionesima parte del meridiano terrestre. Razionale, certo. Elegante e universale. Ma anche segnale di un nuovo ordine: le misure non sarebbero più state locali, ma statali. Non legate alla consuetudine locale, ma alla scienza.
E così, lentamente, le canne scomparvero dalle facciate, lasciando spazio al sistema metrico decimale. Prima in Francia, poi in Italia. Nel nostro Paese arrivò nel 1840 nel Regno di Sardegna, e fu imposto a tutta la nazione dopo l’Unità, nel 1861.
Ma ancora oggi, chi passeggia per Volterra, Genova, Palermo, Napoli o Roma, può scorgere su qualche muro antico la traccia di quella vecchia canna, il segno di un tempo in cui la misura non era solo un’unità, ma una promessa di equità. E non è nostalgia. È memoria. È diritto inciso nella pietra, per ricordarci che misurare davvero significa anche sapere cosa conta.
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