
Nucleare, quando l’ideologia rovina l’economia
Sono passati quasi quarant’anni e stiamo ancora pagando il peso di una scelta non ponderata e presa sulla base di emotività e mancanza di visione. Nel 1987, sull’onda emotiva di Černobyl’, l’esplosione di una centrale nucleare in Unione Sovietica, l’Italia decise con un referendum di abbandonare il nucleare. Non fu una decisione razionale, ma un gesto collettivo di panico. La paura vinse sulla politica, l’angoscia prese il posto della competenza.
A distanza di quasi quarant’anni, stiamo pesantemente subendo le conseguenze di quella scelta. E paghiamo in bolletta, in dipendenza energetica, in perdita di know-how. L’Italia non produce energia nucleare, ma la consuma: la importa da Paesi che non si sono fatti intimidire dalle lacrime e dai titoli dei giornali, ma hanno investito in ricerca, sicurezza e sviluppo. La Francia, tanto per dirne una, ci vende oggi l’energia che avremmo potuto produrre noi. A caro prezzo.
A quel referendum arrivammo non solo spaventati, ma anche confusi. C’era una componente ideologica profonda, che oggi si finge dimenticata. Il PCI, allora ancora potente e con il cuore rivolto a Mosca e grande accentratore delle piazze dove tra canti e balli si portava avanti l’idea “contro” del momento. (sembra un discorso ancora attuale).
Il PCI, guidato da Alessandro Natta, erede di Berlinguer, lanciò una campagna feroce contro il nucleare, dipingendo la tecnologia come figlia del capitalismo occidentale, un pericolo americano da cui difendersi. Termini come “verdi” ed “ecologia” stavano diventando di moda e tendenza; poco importavano le valutazioni economiche rispetto a quelle politiche che, per l’epoca, ricordano quelle woke di oggi. E tutto in una prospettiva anti America e anticapitalismo.
Peccato che proprio l’Unione Sovietica fosse all’origine del disastro. Ma la propaganda, si sa, ha i suoi cortocircuiti: non si criticava il sistema chiuso che aveva occultato per giorni la gravità dell’incidente, ma si insinuava che “così poteva accadere anche da noi”, come se le nostre centrali fossero progettate con gli stessi standard del regime sovietico. Un falso storico, tecnico e morale che però riuscì ad abbindolare il popolo delle piazze.
Chi, ancora oggi, si ostina a sostenere che “abbiamo evitato il peggio” dimentica che abbiamo solo spostato il problema oltreconfine. Il nucleare lo usiamo comunque, solo che lo fanno gli altri, mentre noi firmiamo assegni. Abbiamo rinunciato all’autonomia, alla competitività e alla possibilità di una transizione ecologica vera. Perché sì, oggi lo dice anche l’Europa: il nucleare è energia verde.
Lo dicono gli scienziati, i rettori, i tecnici. Non i fanatici delle lobby, ma persone serie. Umberto Minopoli parla di suicidio energetico in differita. Ferruccio Resta lo definisce un pilastro della decarbonizzazione. Persino Piero Angela, sempre pacato e mai ideologico, spiegava che la paura non può essere la bussola di una nazione moderna.
Nel frattempo, gli altri costruiscono, noi smontiamo. Gli altri formano ingegneri, noi li esportiamo. Gli altri vendono energia, noi la compriamo. Abbiamo sostituito la politica energetica con la coscienza ecologica da talk show. Ma l’ambientalismo vero è quello che studia, investe, previene. Non quello che chiude gli occhi sperando che il problema si sposti altrove. I francesi accendono reattori, noi le candele.
Chi ha paura del nucleare spesso ignora che lo usa già. Solo che lo paga di più. E lo fa produrre a chi ha avuto il coraggio di guardare la realtà senza isterie. Se il futuro energetico si decide a testa fredda, noi rischiamo di restare al buio. Per colpa di una paura che non abbiamo mai smesso di votare.
Il paradosso, oggi come allora, è che certe scelte sembrano troppo serie per essere lasciate ai tecnici, ma finiscono nelle mani dell’emotività, dell’ideologia o del moralismo improvvisato. Si fa rumore con i cuori e si zittiscono le teste. Il rischio è che il copione si ripeta: oggi non è più il nucleare il bersaglio, ma la medicina, la genetica, perfino l’intelligenza artificiale. C’è chi vorrebbe fermare la ricerca sui vaccini perché “non si fida”, o proibire gli algoritmi perché “non li capisce”. La scienza si processa sui social, mentre la politica applaude. Ma le leggi della fisica, dell’energia o della biologia non si piegano al tweet più condiviso. La storia del nucleare italiano dovrebbe insegnare che il mondo non cambia a colpi di panico o di slogan. E che ogni volta che lasciamo alla pancia il volante, non ci sorprenda se finiamo fuori strada.
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