I dilemmi di Trump

L’indagine del Procuratore Speciale Muller sui rapporti tra l’Amministrazione Trump e la Russia avanza con una certa lentezza, ma a passi abbastanza sicuri. Si ricordi che uno dei principali indiziati era l’ex-Consigliere per la Sicurezza Nazionale, Michael Flynn, il quale era stato costretto a dimettersi dopo solo 24 giorni essendosi scoperto che aveva mentito all’FBI e allo stesso Vicepresidente Pence sui suoi contatti con l’Ambasciatore russo.

Flynn poteva considerarsi un po’ la chiave di volta dell’intera faccenda, accanto al Ministro per la Giustizia e allo stesso genero del Presidente. Ora, Flynn ha formalmente ammesso di aver mentito ed è stato per questo incriminato da Muller. Tutta la questione è ora di sapere se, e fino a quale punto, egli coinvolgerà direttamente Trump. La Casa Bianca ha già messo le mani avanti, parlando di “false dichiarazioni”. La logica però fa pensare che Flynn difficilmente abbia potuto agire di sua spontanea iniziativa e senza informare il Presidente e, dal momento che ha scelto di collaborare con la Giustizia, evidentemente per migliorare la propria posizione, se sa qualcosa la dirà. Da qualche giorno, del resto, i contatti tra i suoi avvocati e la Casa Bianca erano stati interrotti.

Non é ancora “la pistola fumante” ma ci va molto vicino. Si ricordi che l’accusa a Trump non è nei contatti in sé con gli emissari di Putin, che tirandoli per i capelli possono considerarsi una scelta politica non penalmente incriminabile, tanto più che si sono svolti prima dell’assunzione di Trump alla Casa Bianca, ma nell’aver cercato di ostacolare le indagini dell’FBI, tra l’altro licenziando il suo capo, e questa è “ostruzione della giustizia”, un reato particolarmente grave agli occhi degli Americani e che fu la causa delle forzate dimissioni di Nixon e della procedura di impeachment contro Clinton, mancata per una pugno di voti al Senato.

Malgrado le sue spavalderie, Trump ha quindi di che preoccuparsi seriamente. Il momento per lui non è dei migliori: due o tre senatori repubblicani, suoi acerrimi nemici, potrebbero riuscire a bloccare la sua tanto annunciata riforma fiscale (a leggerla è una follia: far pagare meno tasse ai ricchi, indebitare maggiormente il Paese, tagliare drasticamente le prestazioni sociali, una vera bomba a orologeria elettorale). E gli Stati Uniti sono obbligati a confrontarsi con la follia nord-coreana, che rischia di incendiare quell’area del mondo. Finora, Trump ha risposto più con bravate che altro, ma non sembra aver impressionato Kim, e forse si avvicina il momento in cui dovrà agire, e lo dovrà fare in una situazione di crescente impopolarità a casa e inaffidabilità all’estero. Solo la Cina ha la chiave per evitargli il disastro. Giustamente Washington chiede a Pechino di intervenire a Pyongyang in maniera concreta e dura, sospendendo ogni commercio ed espellendo i lavoratori nordcoreani. Ma i cinesi sono gente enigmatica, e quello che realmente vogliono fare resta spesso un mistero.

Naturalmente, la crisi coreana non è soltanto un danno per Trump: può fornirgli un alibi per far dimenticare le questioni interne e riunire il consenso del Paese dietro al Presidente Capo delle Forze Armate. Il problema però è uscirne bene, e vincere la partita senza provocare apocalissi nucleari. Non facile.

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