Diritti civili e cittadinanza

Al lato delle tante discussioni sulle finanze, l’economia, il lavoro, la sicurezza interna ed esterna, riaffiorano nuovamente i temi controversi dei diritti civili e della cittadinanza. Sono temi davvero prioritari? Forse, ma per una parte molto ridotta della popolazione. La maggioranza, credo, dà molta più importanza a quello che la preoccupa giorno per giorno: le tasse da pagare, il lavoro da non perdere o da ritrovare, la scuola per i figli, la sicurezza delle nostre strade, la vivibilità delle nostre città, insomma tutto quanto fa parte del nostro bagaglio di interessi e angosce quotidiane. D’altra parte, i temi di cui oggi si riparla toccano aspetti non secondari della convivenza civile, e quindi è giusto che, prima o poi, siano affrontati. Affrontati, però, senza il paraocchi delle ideologie unilaterali o delle mode politicamente corrette, e tenendo conto dello stato generale della società, della sua sensibilità, di quello che essa può accettare e di quello che essa respingerebbe; senza negare l’evidenza, ma senza chiedere l’impossibile.

In quanto ai diritti civili, è uno sforzo che va richiesto tanto ai cattolici, che in queste materie seguono l’insegnamento etico della Chiesa, quanto ai laici che, a loro volta, è giusto non si sentano vincolati da tale insegnamento ma non possono andare troppo oltre nel forzare la coscienza di chi ai grandi principi ancora crede. Cerchiamo di essere specifici: l’esistenza di coppie omosessuali è ormai una realtà che interessa una percentuale non insignificante delle popolazione e che sarebbe stupido tanto negare quanto criminalizzare. Che queste unioni, quando sono durature e fondate su sentimenti veri, meritino un riconoscimento e una tutela, nessun Paese civile dell’Occidente ormai lo nega e l’Italia è sotto questo aspetto indietro rispetto ai suoi partner europei, dai quali il problema è stato risolto in modo variabile, che va dalla equiparazione piena con le coppie eterosessuali, matrimonio e adozione compresa, sul modello spagnolo, a formule meno nette, che però rappresentano un progresso, come quelle praticate in Francia e in Germania.

Se il Governo puntasse sul “tutto o nulla”, introdurrebbe un ulteriore e grave elemento di divisione in una società già tanto polarizzata e in seno alla maggioranza che lo sostiene, in cui militano forze dichiaratamente “cattoliche”. È dunque consigliabile che si orienti secondo il buon senso. Tutela giuridica, sì, matrimonio no: il matrimonio è, non per norma religiosa ma per legge naturale, destinato a un uomo e a una donna. Berlusconi ha già fatto sapere che è disposto ad appoggiare la formula tedesca (anche se questo creerà resistenze nell’ala frondista di Forza Italia). È difficile che vi si opponga NCD. Questo permette di sperare che a una soluzione si possa arrivare in modo non troppo traumatico. Tocca ora al PD mettere da parte i massimalismi, lasciar urlare il solito Vendola  (giudice “in causa propria”)  e attenersi alla via del giusto mezzo.

La cittadinanza ai figli di immigrati nati in Italia è un tema di interesse meno diffuso ma certamente non poco scottante. In questo caso, le linee di divisione non corrono sul discrimine cattolico-laico, visto che una parte della Chiesa, quella di maggiore sensibilità sociale, è in materia molto aperta. Il conflitto è tra una visione “di sinistra” – indiscriminatamente aperta a presunte esigenze umanitarie e sociali – e una visione “di destra” – del tutto “chiusa” – rappresentata soprattutto dalla Lega ma anche da molti settori del Centrodestra  (non si sa bene da che parte stiano i grillini, ma non pare siano disposti a secondare le istanze estremiste).

In un articolo di qualche mese fa su questo stesso giornale, ho espresso la mia opinione in rispettoso dissenso con quella del Capo dello Stato: la cittadinanza, al di fuori della legge del sangue, non può essere puramente automatica, per il fatto, magari casuale, della nascita in un determinato luogo. Tutta la nostra tradizione giuridica, dal Diritto romano alla Costituzione del 1948, è aliena allo “jus soli” applicato indiscriminatamente. Né vale (come sento dire a vanvera) che dobbiamo “adeguarci agli standard europei”. Norme europee in questa materia non esistono e non esistono neppure standard univoci. Ogni Paese regola il problema a modo suo, secondo le sue tradizioni giuridiche e le sue proprie ragioni storiche, ma nessuno – dico nessuno – concede la cittadinanza per il solo fatto della nascita sul proprio suolo. Tutti vi aggiungono condizioni più o meno ampie o stringenti.

Che ciò corrisponda a buon senso e saggezza, credo sia difficile dubitarne ai giorni nostri; gli esempi di altri Paesi, specie Inghilterra e Francia, mostrano fin troppo chiaramente che, in molti casi, la cittadinanza troppo facilmente conseguita si rivela una tragica burla e produce, non cittadini degni di questo nome, ma nemici tanto più pericolosi in quanto godono di tutti i diritti e tutele della cittadinanza, ma non ne riconoscono i doveri: primo fra tutti quello di essere fedeli al Paese di cittadinanza,  rispettarne le leggi, gli usi, i costumi, parlarne la lingua e condividerne i valori di fondo.

Il Presidente del Consiglio, riprendendo idee già accennate nel suo discorso programmatico, torna ora a parlare di cittadinanza  “jure soli” condizionata però al compimento di un determinato ciclo scolastico. È proprio il minimo che si può chiedere. In altre parti (ad esempio nelle Fiandre belghe) è richiesta una preparazione civica sufficiente. In altre, come negli Stati Uniti, un giuramento di lealtà alla bandiera. A rischio di fra strillare Vendola, reti sociali e magari Pippo Civati, credo che non sarebbe male prevedere per i neo-cittadini italiani impegni analoghi.

Su diritti civili e cittadinanza, insomma, Matteo Renzi è chiamato a dare prova di intelligente pragmatismo, mirando a risolvere i problemi e non a dividere ulteriormente la società, sordo alle sirene del radicalismo di sinistra e consapevole che la politica è, in fin dei conti “l’arte di rendere il necessario possibile”.

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