Cronache dai Palazzi

La stretta finale sulle riforme non accenna a placarsi. Dopo lo scivolone sulla responsabilità civile dei giudici, introdotta da un emendamento leghista – con un voto che si è affermato attraverso la saldatura di M5S (grillini astenuti) FI e Lega, più 30-40 franchi tiratori del Pd che hanno tradito il provvedimento del governo – l’esecutivo di Matteo Renzi deve ora verificare la sua tenuta a Palazzo Madama, dove il premier è convinto di poter modificare la norma. Dalla Cina il premier italiano sdrammatizza affermando che si è trattato di “una tempesta in un bicchiere d’acqua”. Il clima però è rovente, tantoché Consiglio superiore della magistratura, Associazione nazionale magistrati e toghe della Corte dei Conti definiscono la norma “incostituzionale” e accennano ad un “attentato all’indipendenza della giurisdizione”, mentre si continua ad indagare sulla corruzione.

Il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, sottolinea a sua volta che “la tutela dell’indipendenza assicurata al giudice dagli ordinamenti non rappresenta un mero privilegio”, e aggiunge che tale tutela “trova la sua ragione e il suo giusto bilanciamento nel rispetto da parte dei magistrati dei principi deontologici”. Anche Michele Vietti, vicepresidente del Csm, ribadisce che è in gioco “non un privilegio ma l’indipendenza di giudizio del magistrato”. Invitando a “coniugare equità e imparzialità” Giorgio Napolitano, inoltre, difende i giudici ma sottolinea che la loro credibilità si fonda sul rispetto di precisi “limiti”. Un equilibrio conclamato che il voto alla Camera destabilizza, mettendo in discussione le decisioni del governo Renzi.

La sostituzione del “dissenziente” Mineo con il capogruppo Zanda in commissione Affari costituzionali provoca inoltre uno strappo all’interno del Pd, favorendo l’autosospensione di 14 senatori democrat che accusano i vertici di aver “epurato” il parlamentare dissidente violando l’articolo 67 della Costituzione, che tutela la libertà di opinione dei parlamentari. Alla base dell’epurazione ci sarebbe anche un tentativo di allargare l’intesa sull’Italicum alle opposizioni, dalla Lega a Forza Italia, in attesa dell’incontro tra Renzi e Berlusconi, atteso per la prossima settimana. “Non lascio il Paese a Mineo”, afferma Matteo Renzi, puntualizzando che “il Pd non è un taxi che si prende per farsi eleggere, andare in televisione, e fare interviste”.

La spaccatura in casa dem fa ballare i numeri della maggioranza ma Renzi, tacciato di autoritarismo (seppur strumentale), non intende reintegrare Mineo cedendo ai dissidenti, che sembrano così arrendersi evitando di essere rinchiusi nel recinto dei “gattopardi”, pur difendendosi e rilanciando le loro ragioni. “Chiediamo che si argini questo fiume di avvertimenti e minacce a mezzo stampa”, dichiara Mineo, puntualizzando di non aver “messo veti” sulla riforma e di non essere “affatto il fuoco amico del Pd”. Se non si affermerà “la possibilità di parlare” Mineo dice: “Io non ci sto”.

La relatrice Anna Finocchiaro aveva tra l’altro avvertito il collega Mineo affermando: “In una commissione in cui non c’è un solo voto di scarto tra maggioranza e opposizione, una critica così radicale non è solo un’espressione di libertà di coscienza, ma pone un’alternativa tra il fare e non fare le riforme”. Mineo, dichiaratamente contrario al testo della maggioranza, con il suo voto rischiava di essere decisivo per far pendere l’ago della bilancia dalla parte del “non fare”. Il senatore Mineo considera comunque “un autogol per il governo e per il Pd” tentare di “far passare in commissione le riforme con un muro contro muro” e nel contempo afferma: “Il problema non sono io, ma uscire dall’impasse”.

Così dopo l’epurazione del leader dei Popolari, Mario Mauro – sostituito con Lucio Romano perché anch’egli contrario al testo, preferendo un Senato “elettivo” attraverso il voto di preferenza e decisivo per i numeri della commissione – si è consumato il secondo atto di forza nella maggioranza. Ora si attende il resoconto dei forzisti, riuniti attorno all’ex Cavaliere, sia a proposito dell’Italicum, sia per quanto riguarda la revisione di Palazzo Madama, a partire dall’eleggibilità dei senatori che gli azzurri sembrano pretendere.

In Parlamento intanto un fronte trasversale è contrario ad un Senato composto da sindaci, governatori e consiglieri, spingendo affinché i senatori siano eletti direttamente dai cittadini (anche con il voto delle Regionali). All’interno dello spaccato Pd, invece, una strenua minoranza firma il ddl Chiti, che prevede l’elezione diretta a Palazzo Madama e un taglio consistente dei deputati alla Camera.

In verità non si tratta solo di una questione tecnica, o di trattative. Il nodo da sciogliere è politico più che tecnico. All’interno di Forza Italia infatti c’è chi, come Brunetta, preferirebbe la linea dura contro il governo Renzi e chi, come Romani, ritiene che non sia buona cosa per i forzisti porsi ai margini del percorso delle riforme rompendo l’asse con l’esecutivo di Matteo Renzi, e quindi anche con Alfano pregiudicando un eventuale alleanza futura. Per di più, qualora la Lega decidesse (come sembra) di chiudere l’accordo con il Pd in virtù di una concessione delle modifiche richieste al testo, per i forzisti diventerebbe davvero difficile votare contro. Berlusconi sembra però non essere ancora giunto alla decisione finale, oscillante tra la linea dura e quella della trattativa, anche per il timore di subire pesanti “ritorsioni” sulla legge elettorale. Il nuovo incontro Renzi-Berlusconi atteso per martedì – giorno in cui si inizierà a votare in commissione – dovrebbe rivelarsi decisivo per rinnovare il vecchio patto del Nazareno o per siglarne uno del tutto nuovo.

Da Pechino, infine, il premier italiano elogia la delocalizzazione affermando che “investire fuori dal Paese significa salvare posti di lavoro in Italia”. Renzi è convinto che per gli italiani sia necessario “ripensare il modo in cui facciamo sistema all’estero” perché si sono persi anni preziosi, fette di mercato colmate da altri concorrenti anche europei, a cominciare dai tedeschi. È necessario “un nuovo piano di sistema” che coinvolga banche e imprese, ammonisce Renzi, “per vendere tutto quello che finora non siamo stati in grado di commercializzare”. Il primo ministro italiano, nonché leader del Pd, è inoltre pronto a fare tesoro del 40% di consenso popolare ottenuto nelle ultime elezioni, e con il suo classico ottimismo annuncia una seria riflessione in casa Pd, decisiva anche sulle riforme, oltreché sulle conseguenze del voto delle Europee.

©Futuro Europa®

Condividi
precedente

Vini d’Italia, quali e come

successivo

Senato, ricorso a Grasso contro la rimozione di Mario Mauro

Rispondi

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *