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Che cosa è realmente WhatsApp?

WhatsApp è l’app di comunicazione più usata al mondo. Conta oltre due miliardi e mezzo di utenti attivi ogni mese e, in Italia, è ormai parte della vita quotidiana. La usano tutti: bambini che mandano messaggi vocali, adolescenti che si scambiano immagini, genitori nei gruppi scuola, professionisti per gestire clienti e fornitori. Passano da lì riunioni di condominio, chat di quartiere, scambi commerciali, foto di famiglia, documenti aziendali. E oggi, con l’introduzione dei canali, delle liste broadcast, delle automazioni aziendali e dell’intelligenza artificiale, WhatsApp non è più solo uno strumento per “scrivere a qualcuno”. È diventata una vera piattaforma sociale, una rete estesa di contatti, contenuti e dati che si muovono sotto traccia, spesso fuori da ogni controllo consapevole.

Ha anche cambiato il modo e il senso stesso del comunicare. Una volta, quando qualcuno ti scriveva, aspettava. C’era una pausa, un margine, un tempo tra l’invio e la risposta. Era lì che nasceva la riflessione, il dubbio, a volte anche la decisione di non rispondere. Oggi no. Oggi scrivi, mandi, visualizzi, e l’altro deve rispondere. Se non lo fa, sei “inquieto”. Se legge e tace, è colpevole. Se ritarda, è maleducato. WhatsApp ha azzerato l’attesa, ha fatto della disponibilità continua una pretesa. Siamo sempre raggiungibili, sempre presenti, ma sempre meno presenti a noi stessi. Ma lasciamo ad altre sedi queste valutazioni.

Ufficialmente, WhatsApp si presenta ancora come una app di messaggistica sicura e privata. Lo ribadisce nella sua privacy policy, dove assicura che i messaggi sono protetti da crittografia end-to-end, e che nemmeno Meta può leggerli. Ma questa promessa, per quanto tecnicamente fondata, è solo una parte della verità. Tutto ciò che circonda il messaggio (orari, frequenza dei contatti, durata delle chiamate, nomi dei gruppi, stato dell’utente, posizione approssimativa) resta disponibile e accessibile. Sono informazioni che consentono di ricostruire abitudini, legami, preferenze. Sono dati che WhatsApp può usare, anche in collegamento con gli altri strumenti del gruppo Meta.

E se da un lato il contenuto dei messaggi resta invisibile, dall’altro l’ambiente in cui questi messaggi si scambiano è tutt’altro che neutro. Il sistema raccoglie metadati, osserva comportamenti, integra progressivamente funzioni predittive e automatizzate. Le recenti evoluzioni dell’app dimostrano chiaramente una tendenza a trasformare WhatsApp in qualcosa di più simile a un social network, dove si seguono canali, si ricevono aggiornamenti, si interagisce con aziende e assistenti virtuali, e si viene raggiunti da contenuti scelti in base al profilo.

La distinzione tra sistema di messaggistica e piattaforma sociale non è solo terminologica, ma giuridica. Se WhatsApp è davvero solo un canale privato, allora certe responsabilità decadono. Ma se invece svolge una funzione sociale e commerciale ampia, se ospita comunicazioni pubbliche, se gestisce interazioni con brand e sistemi automatizzati, allora deve essere trattato come un vero e proprio fornitore di servizi della società dell’informazione. Cambiano le tutele per l’utente, cambia il ruolo di Meta, cambiano le responsabilità delle aziende che decidono di usare WhatsApp per comunicare con clienti, cittadini, pazienti o collaboratori.

Molti professionisti e imprenditori usano WhatsApp con leggerezza, affidandogli scambi di dati personali, file riservati, immagini, voci, numeri di telefono. Lo fanno perché è comodo, immediato, già presente nei telefoni di tutti. Ma spesso dimenticano che l’infrastruttura che regge tutto questo appartiene a un soggetto privato, che ha un interesse preciso nella raccolta e nell’analisi dei dati. E dimenticano anche che l’utente, che oggi clicca con fiducia su “accetta”, domani potrebbe reclamare, segnalare, chiedere conto.

Se WhatsApp è davvero solo messaggistica, allora servono regole più chiare, trasparenti, verificabili. Se invece è ormai diventato un social ibrido e opaco, allora va trattato come tale. Non si può più far finta di niente. Perché dietro ogni messaggio c’è un mondo di dati. E se non siamo noi a definirne l’uso, lo farà qualcun altro. A modo suo.

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Un Commento

  • Analisi precisa che evidenzia un comportamento poco responsabile degli utenti e poco trasparente da parte di chi gestisce il tool. Da entrambe le parti ci sono responsabilità, con pesi moto differenti. Giorno fa un articolo ha messo in evidenza come ricerche di un avvocato per un’azienda su chatgpt siano finite in Google. Di esempi comportamentali “superficiali” ce ne sono tanti, disponibili giornalmente. La tecnologia progredisce noi meno. Ci affidiamo a questi strumenti con piena fiducia, senza controllare ne pensare alle conseguenze che certi nostri comportamenti, o dei nostri figli, possono generare. Siamo impreparati.

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