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Quando bastava la voce

C’è stato un tempo in cui per farsi ascoltare bastava saper cantare. A volte nemmeno quello, nemmeno quello: bastava che ci fosse la musica. Non era necessario conoscere la biografia dell’artista, il suo orientamento politico, i suoi traumi o le sue dichiarazioni su qualche tema d’attualità. Non si doveva accompagnare ogni strofa con una spiegazione, ogni nota con una battaglia.

Bastava un microfono, una melodia e una voce capace di toccare qualcosa di vero. Non a caso Rolling Stone ha messo al primo posto della classifica dei cento migliori cantanti di sempre Aretha Franklin. Chi non la ricorda cantare “Think”, in ciabatte e vestaglia nel film The Blues Brothers?

Ella Fitzgerald? Anche lei era questo. Una voce che bastava da sola. Non serviva sapere se fosse nata povera o privilegiata, né cosa pensasse dei governi del tempo o che cosa indossava. Bastava sentirla e tutto si dissolveva, come dovrebbe tutto ciò che è marginale davanti a un’opera autentica.

Oggi non è più così. Non si ascolta un cantante, si ascolta il “personaggio”. La voce è solo una parte, spesso secondaria, di un’identità pubblica costruita a tavolino ma con autotune. Un’identità che deve essere vendibile, raccontabile, possibilmente militante. Un artista non può limitarsi a cantare ma deve dare una storia, meglio se dolorosa. Deve rappresentare una causa, prendere posizione, generare attenzione anche (e soprattutto) fuori dal palco.

Angelina Mango ha vinto Sanremo 2024 con una canzone sentita, che ha emozionato. Ma non si può non notare che, attorno, ha preso subito forma una narrazione: la figlia d’arte, cresciuta nel dolore, il ricordo del padre, la fragilità esibita e trasformata in forza. Tutto vero, tutto legittimo. Ma se avesse cantato senza quella storia da raccontare, sarebbe stata ascoltata allo stesso modo?

BigMama? Talento, certo. Ma la conosceremmo se non avesse sventolato prima del primo verso la sua identità, la sua storia, le sue ferite? È diventata una figura pubblica per le sue dichiarazioni, alcune condivisibili altre meno, più che per un verso che rimane. Il punto non è cantare. Il punto è che oggi devi raccontarti, devi “posizionarti”, devi avere un’opinione netta, meglio se divisiva. Altrimenti nessuno ti vede. Peggio ancora: nessuno ti cerca.

Questo non è un attacco personale, (avessi io il loro talento!) ma una riflessione più ampia. Il sistema impone che un artista non si presenti con una canzone, ma con un’identità multipla: il look, il messaggio, la posizione politica, la coerenza apparente, le ferite. È un marketing della sofferenza, della visibilità, dei like, della narrazione prima ancora dell’ascolto.

E così la musica diventa sfondo. Il brano diventa il pretesto per dire altro, per essere qualcuno. Ma quel qualcuno, per restare, deve aggiornarsi continuamente, commentare l’attualità, stare sui social, dire la propria su tutto. Non c’è spazio per il silenzio, per la riservatezza, per chi si sottrae. Non si può essere solo musicisti, bisogna essere “presenti”. Non basta il talento, serve una strategia.

È un cambio di paradigma. Ci sono brani che durano da decenni, entrati nel vissuto delle persone. Mina, Battisti, Dalla. Oggi molti pezzi hanno la durata emotiva di un Kleenex: funzionano per un video su TikTok, per due giorni di commenti, per un trend. Poi spariscono. È un fenomeno globale, nato prima con MTV, poi con le boyband: non importava se sapessero cantare, bastava il faccino, il balletto sincronizzato, il tormentone di tre parole. Poi le girlband: identità costruite, messaggi “empowering” ma preconfezionati; ben studiati a tavolino. E poi i social: il trionfo dell’esserci, del mostrarsi, dell’engagement. La musica non si ascolta, si scrolla.

Un tempo c’erano i Beatles: ogni disco era un salto, ogni brano un tentativo di scrivere qualcosa che restasse. Anche travestiti da banda militare psichedelica in Sgt. Pepper, cercavano l’innovazione musicale, non la polemica social. I Rolling Stones: sì, trasgressivi, ma con riff eterni e testi che andranno oltre loro. Gli Eagles: mai belli, mai militanti, mai ossessionati dalla visibilità. Eppure, Hotel California è ancora ovunque. I Supertramp: nessun personaggio, nessun tormentone social. Solo musica scritta e suonata come si deve. I Genesis? Non avevano bisogno di mettere le loro foto sulla copertina di ogni album. Vi pare poco?

Perché le canzoni non chiedevano il permesso di essere comprese, né si presentavano accompagnate da dichiarazioni o schieramenti o cercando di vendere un look. Vivevano da sole. E ancora oggi parlano. È il destino dell’arte vera: restare anche quando chi l’ha creata è scomparso. Oggi invece molti artisti si affannano per esserci in ogni momento, ma spariranno in silenzio appena cambierà l’algoritmo o si chiuderà il sipario. Perché, se la voce non basta, tutto il resto prima o poi crolla.

C’è ancora spazio per chi non urla? Forse. Forse torneremo ad avere voglia di artisti che sanno sottrarsi, che non spiegano tutto, che non vendono dolore a buon mercato, ma che sanno lasciare un segno con una melodia e basta. Ella Fitzgerald e Areta erano altro.

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