Egitto e Primavera araba

Quello che sta succedendo in Egitto è triste e tragico. La “primavera araba” che non molto tempo fa faceva sognare in un era nuova per una vasta area del mondo a noi vicina, è finita in violenza, repressione e  sangue nel più grande e antico Paese della Regione, quello che per ricchezza culturale, forza militare e antica tradizione è destinato ad essere il modello e la guida degli arabi (lo fu al tempo di Nasser).

Di fronte alla tragedia, però, e pur deplorando la violenza della repressione, dobbiamo chiederci perché succede quel che succede e che rimedio può esserci. L’Egitto è un Paese per molti versi ricco di risorse, innanzitutto intellettuali e umane, e di grandi possibilità, per esempio nel settore del turismo e dell’industria agroalimentare (al tempo di Roma era il granaio dell’Impero), ma ancora povero e arretrato. Per svilupparsi, con tempo e pazienza, ha bisogno di pace con i suoi vicini, di stabilità e di buon senso: una politica economica che non castighi le potenzialità del Paese, un classe media educata ed evoluta, una società laica e libera dal cui seno emanino poco a poco le forze (anche femminili) capaci di condurre tutto il Paese verso un futuro migliore. Di tutto ha bisogno fuorché di disperdere le sue risorse in un conflitto dichiarato o latente con Israele. Di tutto ha bisogno fuorché di chiudersi in un oscuro Medioevo fondamentalista. Di tutto ha bisogno fuorché di terroristi che massacrano i cristiani egiziani (una delle comunità più produttive) e allontanano gli stranieri, siano essi investitori o turisti, il cui apporto è linfa vitale per l’economia egiziana. Anwar Sadat prima e Hosni Mubarak poi, con la loro formazione militare e laica, hanno assicurato per decenni queste condizioni e il Paese nel suo insieme, finite le costose avventure nasseriane, e con non poco aiuto dell’Occidente (anche italiano) si era messo a crescere.

Purtroppo, però, il regime di Mubarak ha mano a mano assunto le caratteristiche di una dittatura. Ma quello che poteva essere accettato dalla società civile in anni informazione controllata e limitata, non lo è stato più nell’era delle comunicazioni simultanee e globali, l’era della rete; quando la stessa classe media, informata e attenta, sviluppatasi con il regime, ha preso coscienza dei suoi diritti ed è scesa in piazza per reclamarli. Era una rivoluzione giusta, sana, anche se violenta (la violenza era purtroppo necessaria) e Mubarak ne ha pagato il prezzo. Ma purtroppo, in quel grande moto liberatore si è inserito sin dal principio un movimento fondamentalista che ha come obiettivo, non la libertà, ma maggiore oppressione, un’oppressione non più soltanto politica e di polizia, ma intellettuale, religiosa, civile. Un’oppressione nemica del progresso,  un’oppressione che vieta la parità di diritti tra uomini e donne, che pretende di applicare a un popolo in gran parte laico i principi della sharia, secondo modelli tristemente noti altrove;  un’oppressione che riporterebbe l’Egitto lontano dall’Occidente, nel girone dell’estremismo degli Ayatollah  e prima o poi, fatalmente, in una nuova guerra con Israele. Questo movimento, quando  è riuscito a vincere le prime elezioni presidenziali, ha mostrato subito il suo volto, tentando di cambiare in senso fondamentalista la Costituzione, di imporre un sistema di vita che gli egiziani, in maggioranza, non vogliono e negare quella libertà per la quale avevano lottato e per cui in tanti erano morti.

La gente, come era da aspettarsi, ha reagito con la (nuovamente inevitabile) violenza, per difendere, non privilegi o interessi, ma il proprio diritto ad essere libera di vivere come le pare, non secondo i lontani precetti del Profeta (sono battaglie che in Occidente sono state combattute e vinte da almeno tre secoli). Sono dovute intervenire le Forze Armate, con la mano dura che è loro propria.

Per quanto sia lontano dalla pratica e dal costume occidentale, dobbiamo purtroppo riconoscere che, in quei Paesi (è vero anche nella evoluta Turchia che aspira ad essere europea) le Forze Armate sono il pilastro della laicità e le interpreti di un certo tipo di progresso nazionale. Violenze e morti non si giustificano, va da sé, ma chiediamoci: conviene davvero all’Egitto e al mondo, noi compresi, che in quel centralissimo Paese vinca l’oscurantismo islamico e antioccidentale? Conviene che, dall’altra parte del “Mare nostrum” si stabilisca un regime ostile, una polveriera destinata prima o poi a scoppiarci in faccia?

Naturalmente, non si può neppure immaginare che l’Egitto possa vivere a lungo in stato d’assedio. I militari dovranno prima o poi tornare nelle loro caserme e il normale gioco democratico riprendere, almeno nei limiti in cui sia possibile parlare di democrazia all’occidentale in quelle terre ove la tradizione democratica è recente e fragile (ma esiste, almeno in nuce, ed è possibile coltivarla e svilupparla). Per questo occorre che i fondamentalisti rinuncino ad  imporre la loro legge a un popolo che non la vuole e accettino le regole base della convivenza civile, prima fra tutte quella della libertà religiosa e intellettuale. Altrimenti, in Egitto assisteremo a una tragedia senza limiti né fine.

©Futuro Europa®

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