Festival, voto 2

Ho fatto uno sforzo, direi patriottico, da italiano all’estero, per seguire di tanto in tanto il Festival di Sanremo. Se dovessi dare un voto in pagella, direi non più di 2. La cornice era sfarzosa, ma con delle pecche di cattivo gusto (ad esempio il codice vestimentario anche dei direttori d’orchestra e gli orribili smoking di Amadeus, per non parlare dei vestiti provocanti di certe cantanti).

Ma il peggio è che dentro la cornice non c’era il quadro: le canzoni erano una più brutta e anonima dell’altra. I cantanti facevano di tutto: gridavano, si arrabbiavano, raccontavano storie con aria tragica o compunta: tutto, fuorché cantare. Le canzoni cantate da Morandi e da Gino Paoli hanno fatto crudelmente misurare l’abisso che separa quei giganti dai nanerottoli odierni; Gino Paoli, lo confesso, mi ha intenerito e il suo Cielo in una stanza mi ha portato le lacrime agli occhi. L’ho sentita per la prima volta a 25 anni, allora ero innamorato come si può esserlo a quell’età, un amore finito poi male, in tradimento, ma non importa. La nostalgia di anni che non ritornano, legata a una canzone, resta forte.

A parte la presenza del Capo dello Stato e la nobile lettera di Zelensky, tutto è da dimenticare, anche il monologo di quel simpatico guitto che è Roberto Benigni, che non dovrebbe prendersi tanto sul serio.

Tutto da dimenticare: ma con stupore assisto al fatto che le polemiche legate a quel brutto spettacolo sono al centro della stampa, come un fatto nazionale, e si discute di Fedez (ma chi è?) e del futuro di Amadeus come se ad essi fossero legati le sorti del mondo. Quando impareremo ad essere seri?

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