L’autostrada di Trump

Nella campagna elettorale di Donald Trump del 2016 l’autostrada principale e parzialmente innovativa su cui aveva viaggiato l’auto della sua propaganda erano stati i social network, le reti sociali, e specialmente Facebook, capaci di diffondere a decine di milioni di utenti il messaggio, spesso completamente falso e fabbricato, del candidato. Trump era da sempre un mago della comunicazione di massa e si era costruito una macchina ben oliata e praticamente irresistibile  (se poi i russi gli hanno dato una mano con la loro rete di messaggi è un’altra questione).

Questa metodologia è stata ripresa e ampliata in questa elezione. Specialisti della comunicazione hanno rilevato (come racconta una nota di The Guardian del 31 agosto) che migliaia di messaggi originati da esponenti della destra peggiore stanno inondando le reti sociali, diffondendo le più smaccate controverità sulla grandezza di Trump e sui risultati del suo governo (compresa la gestione, pur tanto criticata, della pandemia) e soprattutto denigrando nel modo più plateale e volgare chiunque si opponga al Presidente (da Joe Biden, definito un vecchietto prigioniero della sinistra socialista, incapace di mettere insieme due parole coerenti, al movimento “Black lives matter” definito una banda di anarchici terroristi e banditi). Potrebbe stupire che in un paese di democrazia avanzata si diffonda così facilmente il metodo dell’insulto e della falsità, ma così è. Le inchieste mostrano che i messaggi pro-Trump hanno decine e decine di milioni di lettori e in buona parte di seguaci. È una gigantesca macchina che la stampa liberal e il Partito Democratico sembrano poco armati a contrastare.

Ciò fa temere a commentatori anche molto seri del centro moderato che la battaglia elettorale di novembre, nonostante i sondaggi che danno Biden in vantaggio, è lungi dall’essere vinta. A questo fine va tenuto sempre conto delle assurde storture della legge elettorale americana, che non si basa sul voto popolare (altrimenti la Clinton avrebbe vinto nel 2016 con un margine di oltre tre milioni di voti) ma sul voto dei delegati dei vari stati, tra cui ovviamente prevalgono quelli più popolosi, come la Florida (per la quale il partito che prende più voti non è rappresentato proporzionalmente nell’elezione presidenziale, ma si prende tutti i delegati, secondo la regola del “winner takes all”.

La battaglia in Florida è aperta, intanto l’interesse dei democratici si sta concentrando su un altro grande Stato, il Texas, storicamente repubblicano. Poterlo sottrarre a Trump sarebbe un colpo molto serio per quest’ultimo, ma è certo difficilissimo. I texani sono gente tradizionale, “d’ordine” e fondamentalmente razzista e Trump fa leva, lì come altrove, sulla paura per i movimenti rivendicativi della minoranza di colore.

A loro volta, i Democratici puntano proprio ad ampliare la loro base tra queste minoranze, soprattutto per convincere milioni di persone che nelle elezioni precedenti non avevano votato, ad andare questa volta a votare. E la battaglia si svolge anche su punti strumentali: facilitare l’iscrizione nei registri elettorali, rendere possibile ed efficiente il voto per posta, due cose che l’Amministrazione di Trump e gli Stati governati dai repubblicani cercano di contrastare in tutti i modi.

La conclusione è che, per sconfortante che paia a ogni persona decente, la strada per Joe Biden, pur essendo egli il favorito nei sondaggi (ma lo era anche Hillary Clinton), è tutta in salita.

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