Camera di Consiglio

LA BANDA DELLA MAGLIANA, TUTTO VERO? – È a tutti nota come “Banda della Magliana” quell’organizzazione criminale assurta alle pagine delle cronache per gravi crimini commessi sin dagli anni ’70 a Roma e non solo. Non pochi giornalisti hanno utilizzato spesso questa definizione per indicare addirittura tutta la malavita romana. La “Banda”, resa ancor più famosa da un romanzo, un film e una serie TV, prende il nome dall’omonimo quartiere popolare della Capitale. Ma è davvero andata così? Le sentenze che si sono susseguite, inducono dubbi sulla ricostruzione dei fatti.

A Roma, dagli anni ’60, agivano gruppi eterogenei, caratterizzati da una forte territorialità, attivi nello sfruttamento della prostituzione, gioco d’azzardo, usura  e nelle rapine, compiute da “batterie” locali. A seguito di contatti e incontri con membri di Cosa Nostra e di altre associazioni, causati dal soggiorno obbligato, iniziarono a essere coinvolte anche nel traffico di droga. Alle origini della “Banda” vi era, probabilmente, più che la volontà di unire i gruppi della malavita romana ed escludere gli esterni, quella evitare conflitti e limitare interventi di polizia. Nella mala romana, infatti, non si è mai registrata l’organizzazione piramidale che caratterizza altre strutture criminali.

E’ quindi verosimile il tentativo di coalizione da parte di batterie per assumere il controllo del territorio romano. L’operato della “Banda” è stato collegato ad alcuni gravi episodi non solo dell’epoca: i nomi dei membri si trovano nell’omicidio Pecorelli, nel Caso Moro, nella scomparsa di Emanuela Orlandi, nell’attentato a Giovanni Paolo II e nel tentato omicidio del banchiere Rosone a Milano, dove venne ucciso uno dei suoi esponenti.

Ma già in uno dei processi a suo carico nel 1986, l’aggravante mafiosa, seppur contestata, non venne ravvisata, così come accaduto oltre trent’anni dopo, nel processo “Mafia Capitale”. Accertati i reati sussistono quindi dubbi sulla reale struttura del sodalizio e sulle modalità operative. Più episodi in cui, a distanza di anni, troviamo gli stessi nomi; ma episodi non uniti da un unico filo conduttore.

Il “metodo mafioso” è un vincolo associativo con requisiti di sudditanza e omertà: un legame che prevede violenza per i riluttanti; l’organizzazione deve avere caratteristiche da garantire la durata nel tempo. Tale vincolo, già nel primo processo, crollò in Appello, e la sentenza venne confermata dalla Cassazione nel 2000. Nonostante il numero degli aderenti, l’ascendente che avevano sul territorio, la condotta criminale complessiva, mai è stato riconosciuto un vincolo che rappresentasse un collante quale quello mafioso o una struttura capillare e perdurante che collegasse componenti ed episodi.

Non è questione di lana caprina; l’associazione di tipo mafioso si caratterizza e si distingue da quella “normale”, oltre che per l’eterogeneità degli scopi, anche dall’oggetto del programma e per il ricorso alla forza di intimidazione per il conseguimento dei propri fini e alla conseguente condizione di assoggettamento dei terzi rispetto al suo operato. Niente di tutto ciò è stato rilevato.

Dalle cronache, oltre alle sentenze, risulta come i gruppi che formavano la “Banda” siano sempre stati in lotta tra loro. Gli omicidi di molti membri sono stati commessi da altri affiliati e molti di loro hanno operato spesso autonomamente. Inoltre i componenti della “Banda”, venivano dalla strada; nessuno di loro sembra avere le capacità di gestire un’organizzazione capillare e strutturata come quella che vorrebbe la cronaca, tale da dialogare con politici e mafiosi di peso. Più probabilmente si trattava di manovalanza da assumere al momento. Dopo i primi periodi, più che quelli associativi, emergono elementi di disgregazioni interna, anarchia e mancanza di collaborazione tra i membri che si combattevano tra loro.  Forse anche la cronaca dovrebbe rileggere l’intera storia.

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