Le guerre di Trump

In pochi giorni, Donald Trump ha aperto due fronti di guerra, non nuovi in verità ma ora arrivati al punto di ebollizione: con la Cina e con l’Iran.

Con la Cina il conflitto è commerciale, ma non secondario. Con la guerra delle tariffe, Trump mira a ridurre l’enorme deficit commerciale americano verso il gigante asiatico, ma anche a persuadere le tante imprese americane delocalizzate in Cina a rientrare negli Stati Uniti (o in altri paesi non colpiti dalle tariffe, come Vietnam o Filippine). La Cina, ovviamente, non ha incassato il colpo senza reagire, e ha subito imposto tariffe su molti prodotti americani e minacciato di annullare ordini di acquisto di aerei Boeing e di altri prodotti di tecnologia avanzata. È dunque prevedibile che questa guerra commerciale alla fine danneggerà ambedue le parti. Resta da vedere in che misura rispettivamente, ma un danno per settori dell’economia americana è sicuro (accettabile però, dal punto di vista del Presidente, se più che largamente compensato dai vantaggi per altri settori provocati dal protezionismo spinto). Non è dato sapere fino a che punto arriverà questa guerra: la speranza è che Trump sia un giocatore di poker arrischiato ma alla fine pragmatico e capace di restare nei limiti, e che in realtà tutte queste bravate servano, a torto o a ragione, a giungere a un accordo generale con Pechino. Ma intanto, la guerra commerciale ha già comunicato a produrre seri guasti, per reazione, nell’economia mondiale, che digerisce malissimo la destabilizzazione degli scambi consolidati, e a creare problemi specialmente alle maggiori economie europee.  Ma questo non preoccupa Trump.

Il fronte aperto con l’Iran non è commerciale, ma politico e potenzialmente militare. Sin dalla campagna elettorale, Trump aveva attaccato l’Amministrazione Obama per l’accordo concluso nel 2015 sul nucleare iraniano, per il quale sostanzialmente Teheran aveva rinunciato al suo programma di dotarsi di armi atomiche in cambio dell’eliminazione delle pesanti sanzioni economiche occidentali che avevano seriamente danneggiato la sua economia. Appena ha potuto, Trump ha denunciato il mancato rispetto iraniano dell’Accordo e fatto uscire da esso gli Stati Uniti, ripristinando le sanzioni. Teheran ha reagito annunciando di volere, in questo caso, riprendere il proprio programma nucleare. Washington ha risposto nel modo classico: inviando una portaerei nel Golfo, cosa che, almeno a parole, non sembra aver spaventato gli iraniani più che tanto. La crisi coinvolge altri protagonisti importanti: Russia, Cina, Francia, UK, Germania ed Unione Europea, cioè le altre parti firmatarie dell’Accordo nucleare. In un primo tempo, queste potenze si sono dissociate dagli Stati Uniti, dichiarando la volontà di rispettare l’accordo. Ma questa posizione non è più sufficiente. A parte le minacce americane di sanzioni a quelle imprese europee che commerciano con l’Iran, l’Iran stesso ha preso una posizione più avanzata, richiedendo senza mezzi termini agli europei di premere per il blocco delle sanzioni e minacciando, in caso contrario, di abbandonare l’accordo. Un imbroglio politico-diplomatico di grandi dimensioni. E un imbroglio che non ha soluzioni militari facili: l’Iran è un paese di settanta milioni di abitanti, bene armato e, soprattutto, al 100% appoggiato dalla Russia. Un attacco all’Iran destabilizzerebbe l’intero Medio Oriente e rischierebbe di allargarsi in un conflitto più ampio e comunque danneggerebbe gravemente l’economia europea.

La linea seguita da Trump avrebbe una parziale giustificazione solo se fosse certo e provato che l’Iran, violando segretamente l’accordo, continua a sviluppare il suo programma nucleare a fini bellici. Una prova di questo non è mai stata fornita pubblicamente, né dagli USA né da Israele, ma lo sostiene da tempo, e con violenza, il governo israeliano, a cui Trump si è accodato. Ed è ovvio che, se gli iraniani riuscissero copertamente ad avere nei prossimi anni una forza nucleare, l’intera situazione mediorientale sarebbe cambiata, con diretto e immediato pericolo per Israele, l’Arabia Saudita e i Paesi del Golfo (per non parlare della parte sunnita dell’Irak). Una vigilanza estrema è dunque giusta. Resta da vedere se le esibizioni muscolari di Trump siano la strada più adatta. La ripresa delle sanzioni, anche da parte europea, sarebbe una via migliore, ma non priva di incertezza e di rischio.

I due fronti di guerra aperti da Trump si aggiungono a quelli in corso con la Corea del Nord e con il Venezuela, per non parlare di Siria e Libia. In tutti i casi, il metodo trumpiano si affida più su atti di bullismo che altro. Bisogna vedere se l’autore dell’Arte del Negoziato sia veramente bravo e  fortunato come egli si immagina di essere.

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