Misurare la libertà di stampa?

E’ grave che un principio riconosciuto in tutte le costituzioni liberali e moderne come la libertà di stampa, debba essere valutato e misurato. E’ un controsenso con il termine “libertà” che implica una totale assenza di vincoli, costrizioni, limiti di qualsiasi natura e, non dimentichiamo, che la libertà di stampa è l’espressione ai livelli più elevati di quelle di pensiero e parola. Negarla o limitarla vuol dire tappare la bocca a possibili dissensi, repressione, oscurantismo, dittatura. Ma se ben due organizzazioni internazionali come Reporters Sans Frontieres e Freedom House redigono ogni anno una classifica delle nazioni in termini di libertà di stampa, è un segnale di allarme che deve essere attentamente considerato.

Non è un caso i media siano considerati al livello degli altri tre poteri dello Stato democratico: Edmund Burke sarebbe andato addirittura oltre, avendo detto che, oltre ai Tre Stati presenti in Parlamento, un Quarto Stato risiede nella galleria dei giornalisti, ed è più importante rispetto a tutti gli altri. Quarto potere, così definito, e non a caso, nella impropria ma azzeccata traduzione del titolo del film di Orson Welles “Citizen Kane.

Storicamente la libertà di stampa e dei media ha seguito lo sviluppo della democrazia, sia in Europa, sia negli Stati Uniti. Il principio si è sviluppato con i pensatori liberali del diciottesimo e diciannovesimo secolo, i quali sono partiti dalla libertà di espressione che ne è a fondamento e costituisce un diritto nato dalla legge naturale. La libertà di stampa ha avuto un consenso unanime e trasversale: è considerata componente essenziale del “Contract Social” da Rousseau,  ed è anche sostenuta dai movimenti rivoluzionari; basti pensare a Rosa Luxemburg.

Ma oggi la libertà di stampa ha bisogno di essere misurata, e l’Italia non è certo ai primi posti della classifica mondiale. Certo, siamo lontani da situazioni estreme nelle quali un giornalista rischia il carcere per l’uso improprio di immagini o termini, come in Cina e Nepal; neppure abbiamo un numero di giornalisti assassinati come in Algeria, ma, pur guadagnando tre posizioni nella classifica di Reportes Sans Frontieres, essere al 43eseimo posto su 180  nazioni, non è certo elemento di vanto.

La Ong parigina ha rilevato nel mondo un “sempre più marcato clima di odio” nei confronti della stampa e contesta come “L’ostilità dei dirigenti politici nei confronti dei media non come è più appannaggio esclusivo dei Paesi autoritari come Turchia (157) o Egitto (161), sprofondati nella ‘mediafobia’ al punto da generare le accuse di ‘terrorismo’ contro i giornalisti e incarcerare arbitrariamente tutti coloro che non prestano fedeltà”. Ma “sempre più leader democraticamente eletti – continua RSF – vedono la stampa non più come fondamento essenziale della democrazia bensì come un avversario al quale mostrano apertamente la loro avversione. Paese del primo emendamento, gli Usa di Trump sono in 45/a posizione. E il presidente Trump ha usato un’espressione addirittura creata da Stalin che definiva i reporter come ‘nemici del popolò. Come strumento di valutazione Reporters Sans Frontieres invia dei questionari a organizzazioni partner e ai suoi corrispondenti, nonché ad altri giornalisti, ricercatori, giuristi e attivisti, con i quali pone domande sugli attacchi ricevuti da giornalisti e media. Chiaro come le risposte abbiano carattere estremamente soggettivo.

Appare più oggettivo il sistema della Americana House of Freedom il cui processo di valutazione coinvolge analisti e consulenti che utilizzano dati e informazioni raccolte nei vari paesi nonché i dati ottenuti da organizzazioni di diritti umani e altri organismi. Vengono poi assegnati punteggi che vanno da zero (paese più libero) a cento (paese non libero) sulla base di 23 domande metodologiche e 109 indicatori suddivisi in tre macro categorie: legale, politica ed economica. In questa classifica l’Italia è indicata come abbastanza libera e si trova al sessantaduesimo posto.

In Italia non possiamo certo dire di avere casi come quello della giornalista Kazaka Lira Baysetova che, in concomitanza con un’intervista che rivelava conti correnti svizzeri di alcuni politici, incluso il presidente, dopo varie intimidazioni ha scoperto che la figlia venticinquenne Leyla era misteriosamente scomparsa e, senza poterla vedere, arrestata per possesso di droga e ufficialmente suicidata in cella a causa di problemi connessi con la tossicodipendenza.

Peraltro anche l’Italia non è immune da forme di attacco alla stampa: dalle minacce ai giornalisti fino ai poco velati attacchi politici che sembrano voler minare il principio della libertà di espressione. Siamo distanti dalla prima posizione della Norvegia in entrambe le classifiche e lontani dall’ultima ricoperta dalla Corea del Nord, ma è evidente come non solo attacchi da parte di organizzazioni criminali possano limitare la libertà di stampa o il fatto che  che alcuni giornalisti vivono sotto scorta, ma anche le minacce di tagliare i fondi da parte di governanti e definizioni squallide nei confronti di chi svolge il proprio compito da parte di politici che incapaci di esprimere pensieri si rifugiano nell’offesa.

Non abbiamo certo la censura che operava all’epoca del fascismo e neppure troviamo in Italia quelli che vengono definiti “Predatori della libertà di stampa”, lista trasversale che include, tra gli altri, Putin, Erdogan, Maduro, Khamenei e Kim Jong-un. Ma siamo lontani da garantire livelli di libertà di stampa come rilevati in realtà dove forse non ci si aspetta come Israele e Taiwan, ma qualcosa deve essere ancora fatto. Diversamente dovranno essere riscritte non solo tutte le costituzioni democratiche, ad iniziare dalla nostra, ma anche rivedere i concetti di diritti dell’uomo.

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