Trump, i seguiti del Rapporto Mueller

Era evidente che la comunicazione al Congresso di un sommario delle conclusioni del rapporto dello “special counsellor” Mueller su Trump non avrebbe soddisfatto i Democratici. Il Ministro della Giustizia, Barr, è stato costretto a diramare un più ampio sommario, che va in qualche modo oltre al precedente rapporto. In quest’ultimo, Mueller concludeva di non aver trovato elementi sufficienti a provare una collusione tra il Presidente e la sua campagna e i Russi durante la campagna elettorale; criminali delle attività poste in essere da Trump (per esempio il brusco licenziamento del Direttore dell’FBI, Comey). In sostanza, una lettura superficiale delle conclusioni portava basicamente ad assolvere il Presidente dalle varie accuse.

Il sommario ora diramato dal Ministero della Giustizia è più informativo sulla questione dell’ostruzione di giustizia (che è il vero cavallo di battaglia dell’opposizione, vista la difficoltà di provare una collusione con i Russi, anche se l’interferenza di Mosca nella campagna elettorale a danno di Hillary Clinton è più che provata. Vengono infatti citati i vari casi (una dozzina) in cui Trump avrebbe cercato di frenare l’indagine dell’FBI sui contatti con i Russi e Mueller dichiara di non poter perseguire il Presidente per dubbi tecnico-legali, e lascia il seguito al Congresso. E il Congresso, a maggioranza democratica, non starà con le mani in mano. La Commissione Giustizia ha emanato una dichiarazione nella quale si ricordano le molte e perduranti istanze di tentativi di ostruzione e ha ordinato al Ministero della Giustizia di inviare al Congresso l’intero rapporto. Poiché è più che probabile che il Ministero resisterà alla domanda, sarà la Giustizia a decidere e la cosa finirà magari alla Corte Suprema.

Tutto questo non avvicina in alcun modo una richiesta di impeachment contro il Presidente. I vertici Democratici non sono favorevoli, sapendo che comunque il Senato la respingerebbe e la cosa potrebbe rivelarsi politicamente un boomerang. Quello che i Democratici hanno in vista è una lunga e aspra battaglia, volta a logorare Trump e a convincere quella parte intermedia dell’elettorato che tre anni fa votò per lui.  Battaglia necessaria, considerando che la popolarità del Presidente è ancora diffusa tra vari strati della popolazione, che ne appoggia la politica economica protezionista e la linea dura anti-immigrazione (basti ricordare che la campagna per Trump-2020 ha raccolto in pochi giorni più di trenta milioni di dollari di donazioni).

Nel frattempo, nel campo Democratico comincia la battaglia per la candidatura nel 2020. L’ex Vicepresidente con Obama, Joe Biden, era partito bene, ma è stato frenato da alcune prove di miscondotta sessuale (abbastanza fragile a dire il vero). Tra gli outsider, la stella montante è un giovane demagogo, Beto O’Rourke, forse il solo che potrebbe tener testa al populismo di destra di Trump. In corsa è anche il vecchio cavallo della sinistra radicale, Bernie Sanders, che però fa appello a una sezione minoritaria del vasto mondo dei Democratici (che, non dimentichiamolo, è maggioranza nel Paese, e lo fu anche nel 2016, quando la Clinton superò Trump per oltre 600.000 voti popolari e perse solo per il gioco perverso dei c.d. “voti elettorali”, una vera aberrazione della democrazia USA). Ma è troppo presto per dire chi andrà in testa. Intanto (avvalendosi del suo controllo del Congresso) il partito farà quanto può per azzoppare Trump. Ma non sarà facile, almeno finché l’economia non sarà dal lato del Presidente.

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