Lo scopone scientifico (Film, 1972)

Lo scopone scientifico è una favola molto giusta sulla lotta dei deboli contro i potenti”, diceva Luigi Comencini del suo film.  Non aveva tutti i torti. Ed è anche il solito film di Comencini dove i bambini assurgono a protagonisti, pur restando sullo sfondo, come unici depositari della verità.

La storia è di Sonego, fido sceneggiatore di Alberto Sordi, che scrive un apologo fiabesco basandosi su un avvenimento reale al quale aveva assistito a Napoli nel 1947. Una miliardaria americana (Davis) e il suo autista (Cotten) da otto anni vengono a Roma, vivono in una villa stupenda e sfogano il vizio del gioco sfidando una coppia di borgatari (Peppino e Antonia) a scopone scientifico. Peppino lo stracciarolo è interpretato da un Sordi in gran forma, così come la popolana Antonia è un’ispirata Silvana Mangano. Il film è perfetto. Non una sbavatura di sceneggiatura. Non un errore di prospettiva. Un piccolo capolavoro. Comencini riprende la vita delle borgate romane nei primi anni Settanta, inquadra volti di bambini che lavorano e non hanno tempo per giocare, ritrae la disperazione della povera gente che sogna il miracolo ma ricade sempre nella polvere. La partita a scopone scientifico con la vecchia signora sarebbe l’occasione della vita, ma i due borgatari arrivano a un passo dal successo, senza riuscire a ottenerlo. Antonia prova a giocare insieme a Righetto il baro (Modugno), un professionista delle carte, ma il risultato non cambia, e Peppino non sa se essere contento o dispiaciuto. La vendetta finale contro la vecchia che si porta via trecentomila lire date in prestito da uno strozzino è consumata da una bambina (Di Maggio), di nome Cleopatra (nomen omen), che alla partenza le regala un dolce avvelenato. Luigi Comencini afferma: “La bambina è l’unica a possedere la verità. Di fatto, ho portato una grande attenzione a questa bambina, e credo che questo si veda. Ha un senso preciso della realtà, vede le cose come sono, non vive nella stessa illusione della sua famiglia e di tutto il tessuto sociale della baraccopoli in cui si trova: illusione che li porta tutti alla follia”.

La trama è semplice ma la storia di contorno è complessa e ben sviluppata, così come è curata in senso neorealistico l’ambientazione romana, anche se la vita di borgata è permeata di realismo fiabesco e l’azione passa dalle catapecchie di periferia al castello della strega. Mario Carotenuto regala un’interpretazione giustamente premiata, è un intellettuale marxista da bar, rispettato dagli ignoranti e consultato in caso di bisogno. Pure la coppia Sordi-Mangano è stratosferica, meritano il David di Donatello, ben calati nella parte dei poveri borgatari con un’immedesimazione totale. Sordi è ancora una volta il mediocre che cerca di cambiare vita, ma viene travolto dagli eventi, anche quando pensa di potercela fare. Intensa l’interpretazione come uomo geloso della moglie, suo unico punto di riferimento, quando si sente male e vorrebbe suicidarsi perché è andata a giocare insieme al vecchio spasimante. Silvana Mangano è la donna di borgata, la popolana coraggiosa che non si arrende. Stupenda la scena finale con Peppino e Antonia che si abbracciano dopo l’ultima sconfitta: “Che c’importa dei soldi, noi ci vogliamo bene!”. Bette Davis è una perfida giocatrice che non comprende le necessità dei poveri, in fondo è una donna sola, senza cuore, con la passione del gioco. Joseph Cotten – per la terza volta in carriera accanto a Bette Davis – è l’amore della sua vita, ridotto a fare l’autista. I cinque figli che lavorano in un’azienda di pompe funebri e contribuiscono al menage familiare rappresentano un’idea surreale e divertente.

Il film è molto teatrale, girato in interni e nella borgata fangosa, tra casupole in lamiera e baracche, ricorrendo ai primi piani, giocando su sguardi ed espressioni dei protagonisti. L’attenzione al mondo dei bambini è una cifra stilistica di Comencini che qui si tiene alla larga dal cinema impegnato per girare una vera e propria fiaba, un apologo morale. I bambini sono piccoli uomini, consapevoli più dei grandi che per vivere bisogna lavorare e soffrire.

Bette Davis, come si legge nel libro Mother Goddam di Whitney Stine (Hawthorn Books, 1974), ricevette il copione quando era in vacanza alle terme di La Costa, California, e accettò la parte con entusiasmo. La sua unica delusione fu che il film venne girato in italiano e restò molto contrariata dal fatto che Sordi – pur parlando bene l’inglese – si rifiutò di dialogare con lei nella sua lingua. Bette Davis dice di averlo soprannominato Alberto Sordido.

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Regia: Luigi Comencini. Soggetto e Sceneggiatura. Rodolfo Sonego. Scenografia: Luigi Scaccianoce. Arredamento: Bruno Cesari. Costumi: Bruna Parmesan. Montaggio: Nino Baragli. Fotografia: Giuseppe Ruzzolini. Musiche: Piero Piccioni. Edizioni Musicali: Radiofilmusica spa, Roma. Aiuto Regista: Silla Bettini. Operatore alla Macchina: Elio Polacchi. Direttore di Produzione: Piero Lazzari. Produttore Esecutivo: Fausto Saraceni. Produzione: Dino De Laurentiis, Filmauro. Interpreti: Alberto Sordi, Silvana Mangano, Joseph Cotten, Bette Davis, Mario Carotenuto, Domenico Modugno, Antonella Di Maggio, Daniele Dublino, Luciana Lehar, Franca Scagnetti, Luciano Martana, Aristide Caporale, Alfredo Capri, Goffredo Pistoni, Leonardo Pantaleo, Guido Cerniglia, Emilio Cappuccio, Dante Cecilia, Riccardo Perucchetti, Piero Morgia, Luigi Antonio Guerra, Fabio Garriba, Dalila Di Lazzaro. Colore: Spes di E. Catalucci. Durata: 116’. Premi: David di Donatello ad Alberto Sordi e a Silvana Mangano (migliori attori protagonisti); Nastro d’Argento a Mario Carotenuto (miglior attore non protagonista). Selezionato tra i cento film italiani da salvare.

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[NdR – L’autore dell’articolo ha un suo blog “La Cineteca di Caino”]

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