Ventiquattro maggio, il Piave

Mio nonno, che la Grande Guerra l’aveva combattuta in trincea e non era affatto un guerrafondaio, mi parlava sempre del ‘valore’. Chissà quante volte era scampato alla strage, guidando i suoi fanti o sotto i bombardamenti. Chissà quante gambe e braccia aveva ricucito, a testa bassa, al buio, nel fango, da studente di medicina in trincea. Chissà quante volte aveva fatto una croce su un ragazzo come lui che poco prima correva, quante volte aveva chiuso occhi sbarrati, quante volte aveva visto l’orrore della morte da arma da fuoco intorno a sé. Ma di questo non parlava mai. Per lui, e per i reduci di quella guerra con cui ebbi modo di parlare, quella fu una storia di ‘valore’, non fu un’ ‘inutile strage’, come la descrivono oggi certi libri di storia incapaci di senso della storia e di rispetto per i fatti, le idee e le emozioni di chi li visse con una mentalità lontana anni luce da chi li descrive.

Inutile strage fu l’espressione con cui Papa Benedetto XV condannò la scelta della guerra da parte di tutti i governi coinvolti. Fu una condanna dell’intenzione politica di chi volle la guerra, non una descrizione di ciò che provò chi la combatté sul campo. Papa Benedetto non la utilizzò così. Perciò è improprio, è scorretto, è fuori luogo usare oggi questa espressione per descrivere la Prima Guerra Mondiale. E’ ingiusto oggi raccontare quella guerra in questi termini. E’ ingiusto, nei confronti di coloro che combatterono, sminuire il loro sacrificio come inutile. E comunque, fra certi storici di oggi e i testimoni di allora, è ai testimoni che bisognava e bisogna continuare a credere.

Bisognerebbe rivedere ogni tanto ‘La Grande Guerra’, di Mario Monicelli, per capire. La Grande Guerra fu essere precipitati, non volendolo, in una tragedia, finendo col viverla come eroica, e così la vissero gran parte dei giovani di allora: ragazzi trasferiti da un momento all’altro dalla scuola, o dai campi, al fronte, e diventati eroi per forza, da un giorno all’altro. Un mattino, si erano trovati tutti su un treno, e il giorno dopo sotto il fuoco. Avevano avuto paura e sofferto, avevano perso un braccio, o una gamba, la ragione, o la vita. Ma alla fine, i sopravvissuti, a quella missione, alla patria e alla sua liberazione, ci avevano creduto. E quando passarono il Piave, cosa fu per loro quel momento, noi che ne discutiamo sul divano non possiamo neanche immaginarlo.

Per questo era impossibile anche solo chiedere ai reduci se, per caso, era stata un’inutile strage come la raccontavano i libri di scuola. Per questo ancora oggi non si può dire che fu un’inutile strage. Ci fu la parte politica della guerra, è vero: fu quella ad essere condannata da Papa Benedetto. Ci fu Cadorna, che usò i fanti come nelle prime battaglie con armi da fuoco del Settecento, come carne da cannone, è vero: come se non si fosse accorto della potenza di fuoco spaventosa delle nuove armi, dei fucili ad avancarica, delle granate e delle mitragliatrici. Finché, alla sua caduta, Diaz portò nei battaglioni un po’ di tattica, ed il rispetto per l’uomo combattente. La corona, il governo, i comandi, facevano politica, facevano strategia, stabilivano obiettivi. La guerra fu un’operazione politica, per condurre i confini del Paese fino allo spartiacque alpino. La società era classista, i generali visitavano il fronte e poi sparivano nelle retrovie, i contadini erano tanti erano considerati sacrificabili, e a far gli assalti alla baionetta rimanevano loro. Tutto questo è vero. E l’obiettivo militare raggiunto costò una strage spaventosa.

Ma non è possibile dire che fu un’ ‘inutile strage’. Dalle trincee emerse quello che anni di pacifica convivenza fra i popoli italiani da poco uniti non avevano costruito: il senso di unità, di appartenenza alla comune storia d’Italia di chi, dal Friuli alla Sicilia e dal Piemonte al Molise, aveva combattuto fianco a fianco con qualcuno che neanche parlava la sua lingua. L’eroe della Grande Guerra è il fante. Il simbolo che ne onoriamo, il Milite Ignoto, è un fante. Dalle trincee emerse il senso di una storia comune. Qualcosa di cui oggi si sente la mancanza. Emersero gli Italiani.

E allora basta col minimalismo di chi giudica quella guerra col nostro metro di privilegiati dalla pace, che peraltro c’è in Europa ma scarseggia ancora oggi nel mondo. Basta col pressappochismo di chi confonde politici e fanti, vecchi comandanti baffuti e ben pasciuti che se ne stavano nelle retrovie e soldati affamati che rischiavano la vita e vincevano la paura con l’esaltazione dei ragazzi, che mio nonno chiamava ‘coraggio da leoni’. Su tutti i fronti, al di qua e al di là delle linee, Italiani, Austriaci, Ungheresi, Serbi, Montenegrini, Portoghesi, Romeni, Greci, Bulgari, Tedeschi, Francesi, Belgi, Russi, Inglesi, milioni di giovani Europei vissero in prima persona la tragica vicenda di una politica che ancora stabiliva i confini con le armi. Basta con chi dice che fu barbarie, e vuole dimenticare: oggi la guerra non sarebbe dimenticata, nell’Europa che fu unita dopo la Seconda Guerra proprio per evitare altre guerre, se non avesse rivelato i suoi orrori di strage tecnologica, di mezzo di distruzione di massa, attraverso il sacrificio di milioni di ragazzi.

E celebriamolo, questo 24 maggio. Diciamo ai nostri nonni: ragazzi, son passati cent’anni, ma siamo ancora qui. Ne abbiamo fatte di cotte e di crude, nel frattempo, ma ci siamo ancora, nelle nuove trincee, e combattiamo. Combattiamo per difendere ciò che di bello abbiamo. E combattiamo perché la guerra scompaia dal mondo nel modo in cui, grazie a voi e ai vostri figli che combatterono la Seconda Guerra, l’abbiamo cacciata dall’Europa. Non dimentichiamo, e continuiamo a combattere. E’ dura: ma è così che dimostriamo, oggi, cos’è il ‘valore’.

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