UE, tra opportunità e guerre commerciali

Dei dossier aperti sul tavolo dell’Unione Europea certamente quello riguardante il commercio internazionale è al momento tra i più delicati. La grossa incognita dovuta ai venti protezionistici che spirano da Washington obbliga Bruxelles a rimanere compatta al suo interno e a porsi in maniera ancora più netta in difesa del multilateralismo economico.

La risposta dell’UE alle minacce di Trump non si è fatta comunque attendere. Oltre ad avere mantenuto saldamente la posizione presa nei confronti dell’Iran, Bruxelles ha accelerato fortemente i negoziati commerciali con alcuni dei partner internazionali di maggior peso quali Canada e Messico ad ovest, e Giappone e Singapore ad est. Nonostante ciò, lo scacchiere commerciale internazionale rimane piuttosto intricato di questi tempi. Saltato l‘accordo con gli Stati Uniti sul Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP) e considerando le battaglie commerciali con la Cina sul dumping, a Bruxelles non rimangono molte alleanze commerciali con singoli paesi che siano abbastanza grandi da poter avere un impatto importante sull’economia europea. Dunque, l’alternativa principale è quella di tessere partenariati con le altre unioni regionali, quali ad esempio l’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico (ASEAN).

La decisione degli Stati Uniti di abbandonare il Trans-Pacific Partnership (TTP) ha avuto l’effetto di riattivare la mobilitazione degli altri partner commerciali coinvolti, con in testa il Giappone, l’Australia, il Canada, il Messico e Singapore, ma anche di attirare l’interesse di altri importanti paesi del Sud Est asiatico quali la Thailandia, le Filippine e l’Indonesia, che puntano ad aggiungersi a Vietnam, Malesia e Brunei nel rafforzare l’asse ASEAN. Il vice primo ministro thailandese Somkid Jatusripitak ha confermato di recente che il paese vuole entrare a far parte dell’accordo commerciale “il prima possibile”. Quest’ondata ‘frenetica’ di unirsi al carro in transito che si respira anche nelle altre capitali dell’area, da Manila a Jakarta, ha fatto fare un mezzo passo indietro a Trump, che per non perdere la sfera d’influenza americana nella regione sta riconsiderando di rientrare nell’accordo ‘dalla finestra’, dopo essere uscito dalla porta principale.

Già perché l’altro gigante commerciale, la Cina, non ha mai smesso di esercitare la sua influenza commerciale e politica attraverso investimenti unilaterali e grandi progetti infrastrutturali, vedi il “One Belt, One Road” (BRI). Gli obiettivi di Pechino, sono di fatto più di natura espansionistica che strettamente commerciale. Infatti, attraverso il BRI, la Cina mira a creare una gigantesca area di cooperazione politica ed economica in cui essere l’attore principale e dove poter imporre le proprie regole e ‘distribuire le carte’ a proprio piacimento. Inoltre, con l’ASEAN–China Free Trade Area Pechino dispone già della più grande zona di libero scambio al mondo in termini di popolazione.

La risposta di Bruxelles ai piani di Pechino dunque potrebbe consistere in un accordo commerciale regionale diretto tra UE e ASEAN sebbene le prerogative ancora manchino. Bruxelles per ora si è infatti limitata a rafforzare gli accordi bilaterali con i singoli paesi del Sud Est asiatico. Secondo Bruno Hellendorff, Joint Research Fellow presso l’Egmont Institute e l’European Policy Centre (EPC), gli stati membri dell’ASEAN devono “prima concordare sull’obiettivo e la portata di un accordo di libero scambio di nuova generazione del tipo l’UE propone”. Permangono svariati ostacoli sostanziali, tra cui la necessità che gli stati membri dell’ASEAN si concentrino sul proprio modello economico di sviluppo e sulla connettività intraregionale prima ancora che della politica dietro tali accordi commerciali. Hellendorff fa inoltre notare come nonostante con il BRI, la Cina abbia messo gli attori e le istituzioni regionali, come l’UE e l’ASEAN ulteriormente “sotto stress”, rimane un partner “troppo importante” per entrambe per sviluppare una posizione di confronto comune contro Pechino.

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